mercoledì 1 agosto 2007

Un pò di storia

Scalfari ci racconta le posizioni politiche del Corriere della sera nei primi del '900. E un articolo lungo ma vale la pena leggerlo.

Scalfari corregge Ernesto Galli della Loggia e quindi Paolo Mieli per un articolo comparso sul corriere in cui si faceva l'apologia di uno dei primi direttori del Corriere.

da Repubblica:

Mi ha favorevolmente colpito l´articolo di Galli della Loggia pubblicato sul Corriere della Sera del 29 luglio con il titolo: «Einaudi, Albertini e gli inviti al silenzio». Ma mi ha anche alquanto stupito. Da molti anni infatti, direi da quando Repubblica iniziò le pubblicazioni e poi in breve tempo raggiunse il Corriere e spesso lo ha superato e lo supera per diffusione e numero di lettori, è stata lanciata polemicamente verso di noi l´accusa di essere un giornale-partito cui il Corriere contrapponeva il proprio modello «albertiniano» mutuato dalla stampa anglosassone, di un giornale al di sopra delle parti che di volta in volta emette i suoi giudizi di approvazione o disapprovazione per l´una o l´altra delle parti in causa, come Minosse che giudica e manda le anime dell´inferno dantesco attorcigliando la sua lunga coda tante volte per indicare in quale girone l´anima del peccatore dovrà scontare la sua pena. Insomma due modi molto difformi di praticare la stessa professione.

Ma Galli della Loggia, che al Corriere non è l´ultimo venuto e nell´articolo in questione risponde a Piero Fassino sulla funzione del giornalismo e quindi scrive a nome e per conto della testata, ci dice invece che proprio il Corriere di Albertini fu un giornale-partito, che intervenne direttamente e incisivamente nella politica nazionale, facendosi portavoce degli ideali e degli interessi della borghesia lombarda e creando in questo modo un grande giornale d´informazione e di orientamento nell´opinione pubblica.

Mi rallegro che finalmente sia riconosciuta e storicamente certificata una realtà che per quanto mi riguarda ho avuto sempre chiara davanti agli occhi. Tanto più chiara in quanto tra il prototipo albertiniano e quello di Repubblica ci furono altre importanti coincidenze strutturali, a cominciare dal fatto che Albertini (come alla Stampa in quegli stessi anni Alfredo Frassati e come è accaduto anche a me) fu al tempo stesso direttore e comproprietario del giornale.

Una circostanza decisiva per fondare (o rifondare come avvenne per Albertini e Frassati) un giornale e farne il punto di riferimento d´una struttura della pubblica opinione con i suoi valori e i suoi legittimi interessi. La favola della neutralità della stampa anglosassone è sempre stata - a mio avviso - appunto una favola. Il solo vero modo di rispettare i lettori, secondo una regola che ho sempre cercato di praticare, è quello di presentarsi per ciò che si è e di stare ai fatti con la maggiore oggettività possibile. Ciò che si è, la struttura d´opinione che il giornale rappresenta, dalla quale prende vigore e spinta e con la quale interagisce quotidianamente. Senza camuffarsi da ciò che non si è, cioè da testimone imparziale, privo di passioni, di convinzioni e di ispirazioni profonde, culturali economiche e politiche.

Questo fu con lucida tempra Luigi Albertini. Questo fu Alfredo Frassati. Questi furono il Corriere della Sera e la Stampa da loro costruiti. E questa, in tempi e modi diversi, è stata ed è Repubblica.
Mi auguro che una volta per tutte la diatriba sul giornale-partito e il giornale-giornale sia chiusa. Un grande giornale è le due cose insieme. Il risultato dipende dalla misura e dall´onestà dell´intento.

L´articolo di della Loggia non si limita però al "format" che Albertini dette al Corriere nei venticinque anni della sua guida di editore-direttore. Passa dalla forma al contenuto, dall´impegno politico e civile agli obiettivi di quell´impegno e racconta quella complessa esperienza del giornale-partito albertiniano partendo da una constatazione storicamente inoppugnabile: il Corriere del primo quarto del Novecento fu la voce della borghesia lombarda, in particolare di quella manifatturiera e in modo ancor più specifico di quella tessile e meccanica, setaiola e cotoniera. E ovviamente del mondo sempre più articolato che ad essa faceva da corona, avvocati, medici, tecnici, inventori, pubbliche utilità e quindi trasporti, la nascente industria elettrica e naturalmente le banche. Le banche che manovravano i rubinetti del credito e finanziavano investimenti e speculazioni.

Il Corriere fu la voce di questi interessi e delle visioni politiche che ne scaturivano: il liberismo, il mercato, il profitto, l´efficienza dei servizi pubblici (ma meglio ancora se gestiti dai privati) e in genere la legge e l´ordine, da applicare in modo speciale nelle vertenze sindacali.
Scrive della Loggia che il Corriere di Albertini fu il giornale antigiolittiano per eccellenza (in opposizione alla Stampa che si schierò in quel quarto di secolo per Giolitti senza se e senza ma, come oggi si direbbe).

Fu esattamente così. Antigiolittiano e sostenitore tenace di Sonnino e di Salandra, un mediocre politico pugliese fortemente conservatore con robuste venature reazionarie. In un solo caso Albertini appoggiò Giolitti e fu nella guerra di Libia contro la Turchia. Perché - anche se della Loggia sorvola su questo punto - Albertini fu un convinto interventista. Non solo nel 1911 ma soprattutto nel 1914 allo scoppio della Prima guerra mondiale. Mentre Giolitti era neutralista, il Corriere gettò tutto il suo peso mediatico in favore dell´intervento a fianco di Francia, Inghilterra e Russia contro gli Imperi centrali. Si trovò accanto i nazionalisti, gli interventisti in genere e soprattutto lanciò Gabriele D´Annunzio in piena trasformazione da poeta a vate.

Le Canzoni d´Oltremare dannunziane avevano già accompagnato la "gesta" libica dalla terza pagina del Corriere, ma poi l´oratoria del vate esplose sulle pagine politiche, culminando nei giorni del maggio 1915 e nel discorso che D´Annunzio pronunciò a Quarto nell´anniversario della partenza dei "Mille" garibaldini alla liberazione-conquista della Sicilia e del Regno Borbonico.
La borghesia padana era tutta per la guerra. Si trattava di completare la conquista dei "sacri" confini della patria. Ma anche di equipaggiare un esercito di sei milioni di soldati: panni per le uniformi, coperte, scarpe, elmetti, ma anche cannoni, esplosivi, corazze per la Marina militare, attendamenti, automezzi d´ogni genere e tipo. E salmerie, viveri, generi di conforto.

La guerra costò all´Italia, ai suoi contadini e ai figli della piccola borghesia quattro anni nel fango e nel lordume delle trincee, seicentomila morti e oltre un milione di feriti, ma fu anche un grandissimo affare per l´industria leggera, per quella pesante e per le banche che le finanziavano.

Luigi Einaudi scrisse nell´immediato dopoguerra uno dei suoi libri più belli e coraggiosi, intitolato “Le conseguenze economiche della guerra”. Ma in quegli anni il giornale-partito albertiniano fu interamente mirato a sostenere lo spirito delle truppe e della popolazione civile che dalle città faceva pubblica opinione. Funzione sacrosanta, alla quale nulla fu risparmiato. Qualche volta tacque e si può capire. Delle esecuzioni sommarie che la polizia militare (i carabinieri) inflissero ai soldati in rotta a Caporetto non si trova traccia nei giornali dell´epoca e meno che mai sul Corriere. Anche allora l´empito maggiore fu dato da D´Annunzio, trasformatosi in «agit-prop» dello Stato Maggiore. E via con la beffa di Buccari, via col volo su Vienna. Via soprattutto con il sostegno incondizionato che il giornale di via Solferino dette all´impresa di Fiume.

Bisogna fermarsi un momento a riflettere su Fiume, anzi sulla marcia di Ronchi. Fu un atto gravissimo di sedizione che pose le basi per la marcia su Roma di tre anni dopo. Un atto contro il trattato di pace da noi firmato, contro il governo italiano, contro le truppe italiane che presidiavano insieme agli alleati Fiume e l´Istria. Conosco bene quella fase della storia nazionale anche perché mio padre fu uno dei giovani ufficiali che seguì il "Comandante" in quella sciagurata impresa. E me ne spiegò più volte le motivazioni che l´avevano mosso: la vittoria tradita, il governo imbelle, il Parlamento incapace di manifestare una qualsiasi volontà, la politica in mano a omuncoli rammolliti e corrotti. Un pilota coraggioso lanciò in quei giorni dal suo aereo un pitale su Montecitorio.
Questo fu Fiume. E il Corriere fece la sua parte intervenendo anche in quel caso. Così come fu interventista nel ‘21 quando spinse in tutti i modi Giolitti a far sgombrare dall´esercito la Fiat, allora occupata dagli operai. Giolitti per fortuna seguì la via opposta della trattativa.

Galli della Loggia ricorda nel suo articolo che Albertini «dopo un iniziale appoggio al fascismo» si schierò su posizioni antifasciste che portarono poi alla sua estromissione dal Corriere. Esatto, ma la verità storica è più complessa e non è proprio quella d´un «iniziale appoggio».
Il Corriere vide nel fascismo e nelle sue squadre una risposta opportuna al sinistrismo massimalista e bolscevico che minacciava il mercato e la libera impresa. Gran parte del ceto liberale condivise questa posizione, a cominciare da Benedetto Croce, Giovanni Gentile, Giustino Fortunato. Poi, pensavano quei liberali, compiuta l´opera Mussolini se ne tornerà a casa, gli si darà un lauto benservito e l´Italia liberale riprenderà la sua marcia verso il progresso.

La borghesia lombarda fu compatta nel condividere l´ "Operazione Mussolini" e i suoi portavoce lo furono altrettanto. Distacco all´inglese? Non direi proprio. Basta leggere le lettere e le telefonate che partivano da via Solferino verso la Prefettura di Milano sull´impiego della polizia e della guardia regia per reprimere le manifestazioni della sinistra; basta consultare il carteggio tra Albertini e Giovanni Amendola che fu in quel periodo suo corrispondente da Roma per rendersi conto che il pericolo era il bolscevismo e i fascisti un supporto e uno stimolo a resistere. Opinione legittima, in quel contesto. Purtroppo sbagliata su un punto essenziale dal quale ebbero inizio vent´anni di regime e quel che ne derivò. Allora, come molti anche oggi, si invocava l´uomo forte che ripulisse le stalle e recuperasse «law and order».

Albertini era stato nominato senatore del Regno. E già dal ‘23 capì l´errore e ne prese coraggiosamente le distanze. Pronunciò alcuni discorsi e scrisse interventi memorabili in difesa della libertà e della democrazia. Il Corriere, allora diretto da suo fratello, non fu da meno.
Ma era tardi. Il 3 gennaio del ‘25, pochi mesi dopo il delitto Matteotti, il governo impose la censura, sciolse i partiti, abolì di fatto la libertà di stampa. Il Corriere fu dato in proprietà ai consoci di Albertini, membri per l´appunto della borghesia lombarda. In quegli stessi mesi Frassati fu estromesso con analoga procedura dalla Stampa che passò in proprietà alla famiglia Agnelli.
A conclusione debbo dire che la borghesia lombarda di allora non dette uno spettacolo particolarmente edificante.

Oggi la situazione è diversa. Di borghesia vera e propria ce n´è assai poca in giro e sembra un po´ più saggia dei suoi predecessori. Ma c´è un altro tipo di sedicente borghesia con analoghe lacune culturali e ossessiva attenzione alla «roba». Inclusa l´invocazione dell´uomo forte, fosse pure il recupero di quello che abbiamo visto alla prova nell´ultimo quinquennio, che poi si scoprì che non era forte affatto se non quando si trattava dei fatti propri.

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