lunedì 9 giugno 2008

Bavaglio ai media

CARLO FEDERICO GROSSO
Quando ha promesso di circoscrivere ai reati di mafia e terrorismo la possibilità di utilizzare le intercettazioni telefoniche e ambientali, e minacciato 5 anni di galera a chi intercetta fuori dai casi previsti dalla legge e a chi pubblica le conversazioni registrate, anche se in modo legale, Berlusconi forse sognava. Una giustizia finalmente fuori gioco nei confronti dei reati che possono coinvolgere i ceti di potere, una stampa finalmente imbavagliata su fatti e misfatti privati d'interesse pubblico.

Niente più manipulite, vallettopoli o scandali del calcio, niente più corruzione, concussione o insider trading, nessuna ulteriore, fastidiosa, pubblicità massmediatica. Il sogno di una vita.

Le reazioni si sono peraltro fatte subito sentire. Hanno protestato i magistrati per i danni che potranno subire molte indagini importanti, hanno protestato i giornalisti per la repressione della libertà di stampa e la violazione del diritto dei cittadini ad essere informati, hanno protestato Italia dei valori e Partito democratico. Il dato politico che più mi ha colpito è stata tuttavia la risposta di ieri della Lega. L'ex Guardasigilli Castelli ha infatti precisato di non condividere l'impostazione menzionata, poiché quantomeno nei confronti dei delitti di corruzione e concussione non dovrebbero essere frapposti limiti alle intercettazioni per non rischiare di favorire, appunto, la casta politica. Parole sacrosante, anche se in questo modo non si rimedierebbe ad ogni guasto, poiché rimarrebbero comunque esclusi dal diritto d'intercettazione i reati economici, che riguardano anch'essi la classe dirigente.

Al di là del modo estemporaneo con il quale ha richiamato all'attenzione il menzionato nodo politico-giudiziario, Berlusconi ha fatto ancora una volta botto. Da ieri affrontare, e risolvere in prospettiva limitante, il problema dei controlli giudiziari delle conversazioni interpersonali è diventato un'urgenza ineludibile. Avanti tutta, pertanto. E' verosimile che, come per la sicurezza, il governo si mobiliti. Il presidente del Consiglio l'altro ieri ha addirittura dichiarato che il relativo disegno di legge verrà approvato già nel prossimo Consiglio dei ministri. Ancora una volta un decisionismo irrefrenabile.

Detto questo, domandiamoci quali sono i termini reali del problema con il quale ci troviamo, ormai, costretti a fare i conti. Il tema delle intercettazioni ha due risvolti: uno giudiziario, uno massmediatico. Sotto il primo profilo ci si deve domandare quali sono i reati con riferimento ai quali è giustificato utilizzare uno strumento d'indagine invasivo qualè il controllo giudiziario delle conversazioni private. Sotto il secondo ci si deve domandare quale equilibrio si deve individuare fra le esigenze contrapposte di informare i cittadini sullo svolgimento delle inchieste giudiziarie e di salvaguardare la privacy dei soggetti intercettati. Con riferimento ad entrambi i profili Berlusconi sembra draconiano. Intercettazioni molto limitate, pubblicazione zero. La risposta, in questi termini, non ha peraltro senso.

Non ha senso, innanzitutto, che sia consentito intercettare soltanto nelle indagini che riguardano i reati di mafia e terrorismo. Occorrerà estendere comunque l'intervento ai reati gravi di criminalità comune, quali omicidi, rapine, estorsioni, sequestri di persona e quant'altro di questo tipo; se non lo facesse, il governo rischierebbe di contraddire assurdamente le esigenze di sicurezza tanto enfatizzate nella recente elaborazione del relativo pacchetto legislativo. Ho già accennato, d'altronde, alla necessità, avvertita da una parte della stessa maggioranza, di non creare inchieste penali ad incisività differenziata, le prime previste per la criminalità comune, le seconde per la criminalità dei colletti bianchi. Sarebbe una ignominia.

Più delicato è il problema che concerne il rispetto del diritto alla riservatezza ed il suo bilanciamento con il diritto-dovere di informare sulle notizie di interesse pubblico. Ha ragione chi sostiene che non è consentito pubblicare tutto ciò che emerge dalle intercettazioni legittimamente ordinate dall'autorità giudiziaria, poiché i cittadini, anche se indagati, hanno diritto a che non sia pubblicizzata ogni vicenda privata che dovesse emergere in quella sede. La privacy ha tuttavia un suo limite naturale. Quando la notizia riguarda l'oggetto dell'inchiesta, poiché l'indagine penale ha di per sé un interesse pubblico, una volta caduto il segreto investigativo non si può impedire la sua pubblicazione.

Quanto alle notizie che non riguardano l'oggetto dell'indagine penale, esse dovrebbero essere comunque espunte dagli atti del processo. Si deve inoltre evitare che l'intercettazione sia usata come una rete da pesca, lanciata in mare per vedere che cosa resta nelle maglie. Non è detto, infine, che l'intercettazione disposta per un reato possa essere indiscriminatamente utilizzata per ogni eventuale diversa imputazione. Vi è dunque, sicuramente, l'esigenza di una riforma del sistema vigente delle intercettazioni che non impedisce queste ed altre aberrazioni.

La materia, delicatissima, dovrebbe essere trattata, in ogni caso, con il cesello. Temo che nell'attuale contesto politico, di fronte alla prorompente vigoria del presidente del Consiglio, non sarà facile difendere i principi. La voglia di bavaglio è probabilmente troppo forte, nei confronti dei magistrati come nei confronti dei giornalisti.

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