di Franco Venturini
Quando una guerra è nell’interesse dei potenziali contendenti, prima o poi scoppia. Da sei giorni, mentre sul terreno le ostilità continuano, russi e georgiani fanno a gara nel mostrarsi sorpresi dagli eventi e nell’attribuire ogni colpa alla parte avversa. Ma il loro è un tragico imbroglio. Da mesi i rapporti tra Mosca e Tbilisi erano arrivati al calor bianco. Da mesi si incrociavano provocazioni reciproche. Perché da mesi Georgia e Russia preparavano, nemmeno tanto in segreto, le loro opposte strategie: Mikhail Saakashvili voleva dimostrare che la piccola e democratica Georgia aveva bisogno di entrare nella Nato per non essere alla mercé del potente vicino, e sullo slancio sperava di recuperare il controllo dell’Ossezia del Sud; la Russia del tandem Putin-Medvedev inseguiva la prova contraria, intendeva sottolineare come la Georgia delle teste calde non potesse far parte dell’Alleanza e per ogni buon conto era pronta a far intendere a tutti il linguaggio dei suoi carri armati.
Nella notte del tripudio olimpico, quando Saakashvili ha lanciato la sua temeraria scommessa militare contro la capitale osseta, Mosca ha ricevuto in dono l’occasione che aspettava. E ha reagito come reagiscono sempre i generali russi, con un uso sproporzionato della forza. Ha ricacciato indietro i georgiani che già invocavano l’aiuto dell’Occidente, ha portato la sua offensiva anche fuori dal territorio dell’Ossezia meridionale, ha preparato alla guerra anche i separatisti dell’Abkhazia. E soprattutto, il Cremlino si è tacitamente rivolto alla Casa Bianca e alla Nato: davvero volete far entrare questa Georgia nella vostra Alleanza? Davvero volete mettervi in casa uno stato di guerra e di tensione permanente? Sappiate comunque che qui la forza l’abbiamo noi, e che la Georgia non riavrà né l’Ossezia del Sud né l’Abkhazia.
Il boomerang di Saakashvili, incoraggiato e atteso, consente così alla Russia di inserire la questione georgiana in un contenzioso con l’America che non ha cessato di aggravarsi: Kiev e Tbilisi hanno comunque ricevuto la promessa di entrare un giorno nella Nato, non è mutata la volontà di installare sistemi antibalistici in Polonia e nella Repubblica Ceca, nel Caucaso le rivalità erano già molto accese prima che la parola passasse al cannone, e ben presto la lite geopolitica tra Usa e Russia si estenderà al controllo dell’Antartide e dei suoi giacimenti energetici. «Ci state accerchiando», si lamentano a Mosca, e senza questa psicosi secolare (così come senza il desiderio di ristabilire qualche controllo sul petrolio che viene dal Caspio) non si capirebbe la durezza e l’ampiezza della reazione russa. Come reagirà l’Occidente a una sfida tanto calcolata? E’ improbabile che voglia «morire per Tbilisi».
Beninteso è giusto condannare gli eccessi russi, come è sacrosanto reclamare il rispetto della sovranità e dell'integrità territoriale georgiane. Ma il richiamo ai principi risulterebbe più efficace se l'Occidente non avesse nell'armadio lo scheletro ancora fresco dell'indipendenza unilaterale del Kosovo. E di un dialogo minimo con la Russia gli Usa hanno bisogno per altre crisi più importanti, a cominciare dall'Iran. Mentre l'Europa, subito impegnata in un tentativo di mediazione, si trova in acque ancora peggiori: ha in corso un negoziato globale con Mosca dalla quale dipende per gran parte dei suoi approvvigionamenti energetici, non vede di buon occhio un ingresso sollecito della Georgia e dell’Ucraina nella Nato (al vertice di Bucarest furono Sarkozy e la Merkel a frenare Bush) ma sa che presto o tardi il nodo arriverà al pettine, e soprattutto è divisa al suo interno sulla politica da seguire nei confronti del Cremlino. Con gli ex satelliti dell’Urss che spingono per la linea dura.
Alla determinazione di Mosca, insomma, si contrappone un Occidente debole che ha almeno tre diverse concezioni del rapporto con la Russia: quello americano del roll-back (in attesa delle scelte del nuovo Presidente), quello timoroso dei «vecchi» europei, e quello tutto memoria degli europei che militarono nel Patto di Varsavia. Ha ragione Barbara Spinelli quando scrive che l’Unione Europea non ha saputo esportare la sua cultura fondante dove prima regnava il comunismo sovietico, e ha ragione Dario Di Vico a paventare una rassegnazione europea al pensiero debole. Ma la crisi occidentale del dopo guerra fredda risiede proprio in questa afasia ideale che fa tornare sugli altari la balance of power dei tempi andati, favorendo il brutale pragmatismo di potenze risorgenti come la Russia non meno dell’unilateralismo americano. L’Europa, rappresentata da Sarkozy, ha almeno il merito di non essersi tirata indietro. Un cessate il fuoco sarebbe un ottimo risultato per le sue fatiche diplomatiche. Ma quel che accadrà nei tempi più lunghi, almeno in Ossezia del Sud e in Abkhazia, sarà la Russia impaurita e aggressiva a deciderlo.
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