MARIO TOZZI
Come stava la Terra ieri, nel giorno a lei dedicato? Non troppo bene, grazie, qualsiasi parametro si prenda in considerazione. Le foreste (attraverso le quali respiriamo) in continua riduzione, le emissioni inquinanti in continua crescita, la temperatura media dell’atmosfera che sale, i ghiacciai che fondono, 80 milioni di uomini e donne in più all’anno e 835 milioni che soffrono la fame, impennata dei prezzi dei cereali, siccità, petrolio alle stelle, rifiuti a montagne, estinzione di centinaia di specie al mese. Insomma un disastro, causato essenzialmente dalle attività produttive di una sola specie: non era mai accaduto prima.
La verità è che questo è un pianeta dimenticato, in cui si è definitivamente compiuta la separazione fra il contesto e una parte significativa (ma non primaria) dei suoi abitanti. Unica fra le specie viventi, quella umana ha tagliato il cordone ombelicale che l’aveva legata alla madre Terra almeno fino a diecimila anni fa, periodo delle prime trasformazioni epocali di cui siamo artefici, come apprendisti stregoni che non valutano le conseguenze dei propri gesti e che, anzi, pretendono di poter governare il mondo e gli altri viventi come se gli appartenessero. Ci illudiamo di costituire il vertice di una piramide che partendo dalle scimmie arriva inevitabilmente a noi, e solo in pochi si rendono conto che stiamo parlando di una storia che è fatta soprattutto di batteri e che dura, invece, da quattro miliardi e mezzo di anni, un tempo così profondo da non poter essere facilmente immaginato. È come se volessimo raccontare un libro lungo 4500 pagine a partire soltanto dalle ultime parole prima della fine. Se paragonassimo l’età della Terra a un metro da falegname, la storia anche più antica, la più sfavillante, degli uomini occuperebbe solo una frazione insignificante dell’ultimo millimetro. Eppure pretendiamo di indicare al fiume in che alveo scorrere, di spianare le montagne, unire i continenti e selezionare chi è degno di vivere per i nostri scopi e chi, invece, deve scomparire per sempre.
Quello che si autoreferenzia come l’animale più intelligente di tutti non mostra particolare attenzione verso la propria origine (e il proprio sostentamento) e non conserva nessuna memoria della sua storia. Ma siamo sicuri che sia il «nostro» pianeta a rischiare qualcosa? O non è piuttosto un disastro per noi quello che si annuncia? La Terra continuerà a fare il suo mestiere, che si impernia su equilibri perennemente mutevoli, su un complesso di gilde che interagiscono come se si trattasse di un organismo vivente. Sono gli uomini, semmai, che possono condannarsi a una vita infelice privandosi della straordinaria ricchezza ambientale e biologica del pianeta. Sono gli uomini che si illudono di poter forzare all’infinito una crescita economica ormai fisicamente e biologicamente impossibile, perché il pianeta lo hanno smesso di creare da un bel po’, ammesso che qualcuno lo abbia davvero creato.
Così ci troviamo a fronteggiare sfide di portata planetaria come se fossero di natura economica e non, come invece sono, di natura soprattutto fisica. Le risorse finiscono perché la Terra opera su tempi lunghissimi, senza curarsi se gli uomini hanno bisogno ora di petrolio o di suolo fertile. Ed è certo che il pianeta vedrà passare gli uomini come ha visto passare i dinosauri o le trilobiti senza scomporsi più di tanto. Quando si analizzano i limiti della Terra per indicarli come cornice o quando si parla di rientrare nell’alveo della storia naturale lo si fa per gli uomini, credendo possibile un nuovo umanesimo, a patto che non sia ancora antropocentrico, perché l’uomo non è più misura di tutte le cose e non dovrebbe coltivare la pericolosa illusione di sentirsi al centro di un universo di cui sa ancora meno di quanto conosca il pianeta che ha sotto i piedi.
(La Stampa)
Le foglie morte non sono
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Le foglie, che morte non sono,
irradiano in cielo la luce,
filtrata dai rami che, nudi, vestirono.
E mi sembra, camminando,
che pestarle sia peccato
ché ...
3 settimane fa
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