di Alessandro Gilioli
Le foto di Di Pietro sul trattore hanno scatenato un piccolo dibattito, qui in redazione. Qualcuno, ad esempio, ci rivedeva l’iconografia dei dittatori del secolo scorso, tipo Mussolini nell’agro romano alla campagna del grano.
Personalmente, invece, penso che sia sempre più evidente l’accurata strategia di marketing dell’ex pm che vuole comunicare l’immagine di un’opposizione volutamente popolare - se non popolaresca: schietta al limite della rozzezza, ruvida al limite del villanesco.
Non è un caso che proprio nel giorno del trattore (metafora uguale e contraria al predellino di Berlusconi), Di Pietro s’è lanciato nell’insulto del “magnaccia” (termine vernacolare romanesco), dopo aver rivendicato come valore la sua ignoranza e una certa allergia ai libri.
A fronte di una destra che da anni sfonda nelle classi basse con un lessico politico fatto di culattoni e bingo bongo, Di Pietro avverte il rischio di un centrosinistra che ormai vince solo nelle “circoscrizioni numero uno”, quelle dei centri storici dove vivono i laureati e i professionisti.
Di Pietro - con i suoi congiuntivi approssimativi, la barba sfatta e la giacca sbagliata - ha messo nel cocktail della sua immagine una forte dose di deliberata bifolcheria. A me non piace, ovviamente, ma sono laureato, professionista e abito nella prima circoscrizione. Quindi non sono io il suo target.
E comunque - piaccia o no - quella di Di Pietro è un’immagine forte, un’identità definita, un messaggio mediatico chiaro. Cosa di cui in politica, oggi, c’è bisogno come il pane per provare a vincere.
Magari ne avessero altrettanta, d’identità, i flosci tizi per cui ho votato.
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