venerdì 21 marzo 2008

La Sinizzazione del Tibet


Fabio Cavalera
“La Cina ha tanta gente. Il Tibet ha tanto territorio. Dunque…”. Mao Zedong nel 1952, due anni dopo avere spedito l’Esercito Popolare a Lhasa e avere messo a tacere il piccolo Stato indipendente, chiarì subito le sue idee e i propositi che aveva. La rivoluzione, la lotta di classe, la liberazione dallo sfruttamento non c’entravano proprio nulla con quella terra e con quella povera gente che obbediva all’autorità spirituale del Dalai Lama. Il dittatore-imperatore pensava ad altro: gli premeva riprendersi una regione sulla base di una considerazione storica che faceva addirittura risalire la “proprietà” del Tibet alle dinastie del tredicesimo secolo – stabilendo così nei fatti una continuità fra il suo comunismo e il feudalesimo dell’antichità – e gli premeva pure appropriarsi di un altopiano e di montagne che rappresentavano una insostituibile e formidabile barriera di difesa dalle invasioni nemiche oltre che una riserva di ricchezza naturale (vi nascono i tre grandi fiumi d’Asia, il Gange, il Mekong e lo Yangtze). Mao Zedong per completare il suo disegno doveva però andare oltre alle strategie classiche della occupazione e della colonizzazione, occorreva cancellare molto in fretta ogni traccia di identità culturale e nazionale che non appartenesse alla storia Han, il ceppo etnico cinese. La frase pronunciata dal Grande Condottiero enunciava un programma politico: “quel tanto territorio”, diventava l’oggetto – nel senso più dispregiativo per lui e più lontano da ogni considerazione umanitaria – della sinizzazione del Tibet.

Mao se ne è andato del 1976 e la Cina, si dice, da allora è stata demaoizzata. Via ogni traccia del trentennio rosso. Via tutto, o quasi. E in quel poco o tanto che resta del maoismo – per il filosofo e sinologo francese Francois Julienne la Cina è stata “demaoizzata in nome di Mao” – c’è l’atteggiamento verso il Tibet, divenuto amministrativamente autonomo nel 1965, delle leadership che si sono succedute nella Repubblica Popolare dopo lo smantellamento dell’economia collettivista: repressione delle opposizioni, insediamenti forzati, ribaltamento dei concetti di maggioranza e di minoranza, la maggioranza tibetana che è diventata minoranza, la minoranza han che è diventata maggioranza. Il governo in esilio stima che i “coloni” siano oggi circa 8 milioni contro i 6,5 milioni di indigeni. Poi ci sono gli insediamenti militari: 500 mila soldati cinesi e alcuni basi dotate di testate nucleari. C’è stata una parentesi, negli anni del riformismo di Hu Yaobang, il segretario comunista che tentò di avviare la democratizzazione della Cina. Egli ammise che “il popolo tibetano non ha tratto alcun beneficio dalla nostra presenza”. Hu Yaobang morì prima della rivolta di Tienanmen ma le sue aperture erano già sul punto di fallire sotto i colpi dell’ala conservatrice.

Il Tibet in questi 48 anni è molto cambiato e la stessa semplicità e frugalità del monachesimo buddista ha subito qualche pesante “contaminazione” consumistica alla quale non è di certo estranea la suggestione esercitata dai milioni di turisti (nuova fonte di redditività della Provincia) che si avventurano in cerca di magie sempre più rare. La Cina ha esportato dalle sue grandi città la concezione della modernità intesa come realizzazione di grandi opere-simbolo del nuovo status di potenza acquisito grazie alla forza dell’economia. La sinizzazione è così passata attraverso il progetto della spettacolare linea ferroviaria che dal primo luglio 2006 unisce (per 1142 chilometri), a un’altitudine media di 4 mila metri, Golmud nella Provincia del Qinghai a Lhasa, passando per il tetto dei 5067 metri del passo Tanggula. E sta proseguendo con l’autostrada che dovrebbe portare niente meno che a 5.200 metri del campo base dell’Everest. Il responsabile dell’area del Qomolangma (Everest in tibetano) ha spiegato con queste parole il senso della cementificazione: “L’autostrada è una manna per lo sviluppo locale… gli scalatori potranno risparmiare energie”. No, non scherzava.La torcia olimpica transiterà il 20 e il 21 giugno. Con il suo messaggio di pace. E non solo: la Cina ribadirà al mondo che il Tibet è suo e che le aspirazioni sepratiste sono superate. Che la sinizzazione ha vinto. Come Mao aveva desiderato.
(Il Corriere della Sera)

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