venerdì 21 marzo 2008

Il Tibet e gli errori del papa


Federico Rampini
La replica del governo cinese all’appello del papa per la “tolleranza” in Tibet rivela i limiti del dialogo in corso fra i vertici del regime e la chiesa cattolica. La cautela di Benedetto XVI sulla tragedia del Tibet – criticata da molte parti – viene spiegata ora da un retroscena. Nella stesse ore in cui iniziava a divampare la protesta di Lhasa, veniva accolta in Vaticano per un incontro segreto una delegazione del governo cinese. La crisi del Tibet è scoppiata quindi mentre erano in corso negoziati ad altissimo livello per riallacciare i rapporti diplomatici fra la Santa Sede e la Repubblica popolare. Ma i toni usati dal regime di Hu Jintao sono significativi: la liberalizzazione dei culti religiosi in Cina deve avvenire alle condizioni dettate dall’autorità politica, sotto lo stretto controllo ideologico del partito comunista.
Se la chiesa romana si è illusa di guadagnarsi un trattamento di favore in cambio dei suoi silenzi sul Tibet, con ogni probabilità ha commesso un errore di calcolo. A Pechino il portavoce del ministero degli Esteri Qin Gang ha liquidato in una battuta le parole del papa. “La cosiddetta tolleranza – ha detto il portavoce governativo – non può esistere per i criminali, che devono essere puniti secondo la legge”. I criminali in questo caso sarebbero i rivoltosi tibetani, che il regime descrive come dei separatisti violenti istigati e manovrati dal Dalai Lama. Eppure il Vaticano in questa vicenda si è mosso con una cautela estrema. Domenica scorsa Benedetto XVI aveva addirittura ignorato il Tibet, scatenando polemiche. Mercoledì il pontefice ha rotto il silenzio ma ha usato espressioni generiche, che potevano essere indirizzate in egual maniera verso la repressione poliziesca e verso i tibetani. “Con la violenza non si risolvono i problemi ma solo si aggravano – ha detto Benedetto XVI all’udienza generale di mercoledì –. Dio illumini le menti di tutti e dia a ciascuno il coraggio di scegliere la via del dialogo e della tolleranza”. L’equidistanza del papa sembra trovare una spiegazione nel frangente delicato in cui si trovano le trattative semi-segrete fra Pechino e la Santa Sede. Nel novembre scorso il sottosegretario di Stato per gli Esteri, arcivescovo Pietro Parolin, era stato ricevuto a Pechino. La settimana scorsa si è tenuto un consulto ristretto con i vescovi di Hong Kong, Macao e Taiwan, cinesi ma non sottoposti al regime di Pechino. Infine l’arrivo in Vaticano della delegazione governativa cinese, proprio mentre s’infiammava il Tibet e scattava la reazione feroce.
La rottura tra la Cina comunista e la chiesa cattolica avvenne nel 1951, due anni dopo la vittoria della rivoluzione guidata da Mao Zedong. Nel periodo del comunismo più radicale venne imposto l’ateismo di Stato. Le persecuzioni contro i fedeli di tutte le religioni furono violente durante la Rivoluzione culturale dal 1966 al 1976. Dopo la morte di Mao, tra le riforme promosse da Deng Xiaoping ci fu anche una graduale liberalizzazione dei culti. Buddismo, islam, cristianesimo sono tollerati però solo a condizione che i monaci, gli imam e i sacerdoti siano formati nelle istituzioni gestite dal governo, indottrinati politicamente, e disposti a giurare una fedeltà assoluta al partito comunista. I cattolici hanno subìto una sorta di scisma fra coloro che continuano a riconoscere l’autorità del papa – la “chiesa della penombra” con circa otto milioni di fedeli, tuttora soggetta a persecuzioni – e i quattro milioni che frequentano le messe celebrate dalla “chiesa patriottica”. Da anni procede un graduale riavvicinamento col Vaticano, in vista di una storica riappacificazione. Ufficialmente i due principali oggetti del negoziato sono la rottura delle relazioni tra Vaticano e Taiwan (un prezzo che la chiesa dovrà pagare come tutte le nazioni che hanno rapporti diplomatici con Pechino), e la nomina dei vescovi.
L’anno scorso una conferma del disgelo si ebbe quando alcune nomine di vescovi “patriottici” compiute dal governo cinese ottennero dal Vaticano una sorta di nulla osta ufficioso. Ma un accordo su Taiwan e sulle nomine dei vescovi, e la ripresa delle relazioni diplomatiche, possono lasciare irrisolta la questione di fondo: la libertà religiosa così come la intende il regime cinese ha un’applicazione molto ristretta. E’ facile immaginare cosa accadrebbe a un sacerdote che osasse contestare l’aborto, che è una legge dello Stato e viene usato massicciamente in Cina per il controllo delle nascite. Un sermone domenicale contro l’aborto o contro la pena di morte potrebbe essere interpretato come un atto sovversivo, una sfida al governo, e scatenare la repressione. Anche diffondere tra i cattolici cinesi un messaggio del papa sulle questioni internazionali o sui diritti umani – se non coincide con le vedute del regime – scatenerebbe reazioni. Dietro l’avversione dei dirigenti cinesi per il Dalai lama c’è il rifiuto categorico che una comunità religiosa possa avere un’autorità spirituale indipendente. La chiesa cattolica forse spera di negoziare un trattamento più favorevole perché i suoi seguaci sono una piccola minoranza, a differenza dei buddisti. Ma la sorte degli uiguri musulmani – altra minoranza religiosa in Cina – non sembra autorizzare illusioni.
(La Repubblica Giovedì, 20 Marzo 2008)

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