giovedì 20 marzo 2008

I vescovi e le regole


GIAN ENRICO RUSCONI
E’ patetico parlare o protestare contro «l’ingerenza dei vescovi». È tempo di modificare l'analisi e il linguaggio per mettere a fuoco quanto sta accadendo nel nostro paese. Siamo infatti davanti all'intreccio intimo tra i meccanismi democratici e la loro rivendicazione da parte della gerarchia ecclesiastica per la promozione della sua dottrina.

Quali sono le conseguenze di questa strategia per la funzionalità della nostra democrazia? Non si sta alterando il rapporto tra il principio della cittadinanza costituzionale e il suo uso strumentale in vista delle richieste di una parte di cittadini che si affidano all'autorevolezza della Conferenza episcopale? Non si tratta infatti più soltanto dell'utilizzo dell'apparato legale dello Stato per favorire o bloccare questa o quella iniziativa di legge, ma ora si contesta esplicitamente il sistema elettorale come tale.

L'operazione è legittima eppure insidiosa. In democrazia non solo ogni critica è giustificata e benvenuta, ma nel caso specifico della legge elettorale ci sono state molte, condivise, ampiamente ragionate critiche al sistema elettorale vigente. Tuttavia nel caso dell'intervento Cei, nel contesto della sua rivendicazione della «intrattabilità dei valori», viene il sospetto che la preoccupazione della Chiesa non sia tanto la funzionalità della democrazia quanto i vantaggi/svantaggi che derivano immediatamente per la rappresentanza politica della sua strategia pubblica. La democrazia sta a cuore soltanto quando serve ai «valori»?

L'altra faccia di questa realtà è la sicurezza con cui i vertici della Conferenza episcopale italiana enunciano le loro direttive a nome di tutti i cattolici italiani. Senza preoccuparsi della presenza di orientamenti diversi nella stessa comunità ecclesiale. Sappiamo infatti che tra i credenti ci sono linee differenti di strategia (non necessariamente di dottrina), ma sono zittite o mortificate. Soprattutto politicamente disinnescate. L'ultimo argomento usato contro di esse è la tesi che «non si possono separare i valori, scegliendone qualcuno e rinunciando agli altri». Una volta questo si chiamava «integralismo» che rende difficile trovare punti di convergenza con i concittadini che la pensano in modo diverso. Ma non è questa l'essenza della democrazia? Senza bisogno di aggiungere l'aggettivo «laica»?

In realtà da mesi ormai il dibattito su democrazia e laicità si è incattivito. Se vogliamo ricominciare a discutere, dobbiamo fare chiarezza su alcuni punti preliminari. Innanzitutto, la gerarchia deve abbandonare il lamento sulla presunta esclusione dei cattolici dalla «sfera pubblica» o dal «discorso pubblico» - affermazione che è contro ogni evidenza. (Quando poi sento lamentare «l'esclusione di Dio» personalmente rimango turbato. Ma questa è una riflessione soggettiva: prendo atto che molti miei concittadini ritengono opportuno mettere in campo Dio).

Il dialogo tra laici e cattolici è diventato una finzione. Soprattutto da quando i cattolici si proclamano i «veri laici» e degradano a «laicisti» chi non la pensa come loro. Si dialoga quando si parte dal presupposoto che gli interlocutori hanno reciprocamente «buone ragioni» su cui confrontarsi, e sono disposti magari a cambiare opinione. Dialogare non è elencare i propri convincimenti per dire che sono «intrattabili», o addirittura nella convinzione di possedere «i valori» che la controparte non possiede e che è quindi rappresentata come un pericolo per l'integrità morale della nazione. Con questi presupposti non ha senso dialogare.

Nessuno contesta al cattolico e/o credente la piena legittimità di comportarsi come tale pubblicamente e quindi di avanzare ragioni che danno rilevanza politica alle sue esigenze identitarie. Ma quando queste esigenze/pretese assumono pubblicamente la forma enfatica della «non negoziabilità dei propri valori», allora nascono serie difficoltà per la democrazia.

In democrazia «non negoziabili» sono soltanto i diritti fondamentali, tra i quali al primo posto c'è la pluralità dei convincimenti, pubblicamente argomentati. A essa deve essere subordinato l'impulso di far valere i propri valori (per quanto soggettivamente legittimi) nei confronti degli altri cittadini. Di questa concezione della democrazia non c'è traccia nelle dichiarazioni della Cei. Ma è soltanto su questi presupposti che ha senso aprire lo spazio al confronto - anche duro - delle ragioni che sono condivise o che dividono, e quindi alle regole del gioco democratico.

Ma le regole hanno valore in sé, non possono essere costruite su misura per vincere.
(La Stampa)

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