mercoledì 19 novembre 2008

Coraggio tedeschi

MARIO DEAGLIO
La bufera delle Borse ha avuto ieri, almeno in Europa, un momento di sosta; e per l'Italia le statistiche, che giorni fa avevano costretto a pronunciare la temuta parola «recessione», hanno rivelato, almeno fino a settembre, una tenuta abbastanza buona delle esportazioni italiane sia a livello di Unione Europea sia nel più vasto orizzonte mondiale. Per conseguenza, questo è forse quindi il momento giusto per riflettere sull'improvvisa gelata che si è abbattuta nelle ultime settimane sull'economia mondiale - e quindi anche su quella italiana - sorprendendo molti per la sua durezza e facendo drasticamente peggiorare le prospettive per i prossimi trimestri (per i prossimi anni, secondo alcuni).
Una delle poche misure credibili per contrastare questa situazione è rappresentata dal gigantesco programma infrastrutturale cinese, con i suoi 586 miliardi di dollari da spendere in due anni. Per quanto straordinariamente rapidi siano i cinesi, tuttavia, i due anni basteranno ad aprire i cantieri ma non certo a chiuderli e l'effetto di stimolo si rivolgerà soprattutto alle imprese cinesi e di altri Paesi asiatici e si ripercuoterà sul resto del mondo in maniera ritardata, indiretta e attenuata.
La Cina ha comunque dato il buon esempio. Perché mai l'Europa non la segue?
La risposta occorre cercarla a Berlino: di fronte a Francia e Italia disponibili a un rilancio europeo il cancelliere tedesco, signora Angela Merkel, è rimasto come impietrito e impaurito. Per conseguenza la Germania, ossia la vera locomotiva europea, sta frenando invece di accelerare, timorosa di essere trascinata nel gorgo dell'inflazione da alleati nei confronti dei quali riaffiorano vecchie paure e diffidenze.
La Germania si è opposta a un fondo europeo per le situazioni di crisi (salvo provvedere in maniera sostanziosa alle situazioni di difficoltà di alcune istituzioni finanziarie tedesche) e al progetto di finanziare progetti europei con l'emissione di obbligazioni della Banca Europea degli Investimenti e sta frenando su un'interpretazione meno «ingessata» del Patto di Stabilità: se tutti i Paesi portassero il loro deficit pubblico in prossimità del 3 per cento (o lo superassero temporaneamente di poco) il rischio inflazione sarebbe minimo e la ripresa quasi una certezza.
Vedremo alla riunionedel 26 di novembre della Commissione Europea se ne verrà fuori qualcosa di buono o soltanto il tradizionale cocktail di alti principi, buone parole e pochissime misure concrete. Tutti preferirebbero aspettare che il presidente eletto degli Stati Uniti, Barack Obama, li tolga d'impaccio tirando fuori dal cappello presidenziale un piano economico già bell'e pronto. Il suo slogan elettorale non era forse «Yes, we can!», «Sì, lo possiamo fare», e non ha forse detto dopo le elezioni che gli Stati Uniti sono il Paese in cui l'impossibile riesce?
Aspettando il piano Obama - che necessariamente tarderà e non sappiamo quanto potrà essere efficace - la crisi sta mettendo in ginocchio l'economia di tutto il mondo, dai cinquantaduemila bancari licenziati dall'americana Citigroup al sistema delle piccole, efficienti aziende semiartigianali su cui si regge l'economia italiana; dall'American Express, gigante delle carte di credito, che chiede affrettatamente di diventare banca per accedere al credito facile della Federal Reserve americana, alle piccole e medie imprese italiane nei cui confronti le banche nostrane, senza peraltro dire apertamente di no, si mostrano improvvisamente reticenti ed evasive e rinviano concessioni di credito che prima delle ferie si sarebbero prese con una rapidità molto maggiore.
I piani dei governi europei non sembrano tenere conto del velocissimo peggioramento della situazione dell'economia reale e appaiono tali da cominciare a produrre effetti solo in tempi lunghi. Le misure annunciate per l'Italia, peraltro non ancora note in sufficiente dettaglio, rientrano in questa categoria e sembrano soprattutto riorganizzare fondi europei sui quali in larga misura si poteva già far conto; inoltre intendono finanziare con un aumento (presumibilmente immediato) delle tariffe autostradali dei lavori autostradali che realisticamente inizieranno sul terreno non prima di 12-18 mesi, il che avrebbe un effetto di freno alla domanda, opposto quindi a quello che si vuole ottenere. Rischia di essere, secondo una nota espressione inglese, «troppo poco, troppo tardi».
Non è questa la ricetta che serve oggi. Parafrasando uno slogan caro all'attuale ministro dell'Economia, oggi serve «mettere del denaro nelle tasche degli italiani» delle fasce di reddito più basse; se non lo si vuol fare in nome dell'equità sociale, lo si faccia almeno in nome della ripresa dell'economia. E non basta una «mancia» che integra la tredicesima, per finanziare i regali di Natale di un popolo che, a ragione o a torto, si sente impoverito, né una «social card» che dà a chi la usa la patente ufficiale di povero: è necessario un flusso aggiuntivo su cui contare per un tempo indefinito che deriva da una riduzione delle aliquote fiscali sulle categorie dal reddito più basso. Naturalmente oggi il ministro dell'Economia non ha le risorse per un'operazione del genere e il discorso torna così al piano di rilancio europeo che dovrebbe essere presentato dalla Commissione il 26 novembre. E' l'ultimo treno per evitare che le (finora modeste) spinte recessive si rafforzino fino a travolgere un'Europa che non ha i giganteschi problemi strutturali degli Stati Uniti e potrebbe puntare i piedi per resistere alla crisi. Per questo sono necessari un po' più di coraggio a Berlino, una visione meno burocratica a Bruxelles e misure rapide, vicine ai veri problemi nelle altre capitali, a cominciare da Roma.
(La Stampa)

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