venerdì 21 marzo 2008

Natura Selvaggia

Guardatelo tutto, abbiate pazienza.... un video incredibile.

I più visti in TV


Somma degli ascolti medi dei partiti nelle trasmissioni dal 7 febbraio al 20 marzo nelle trasmissioni Rai, Mediaset e La7

Spitzer for President


Marco Travaglio
Il governatore democratico di New York, Eliot Spitzer, già procuratore anticorruzione, eletto nel 2006 col 70% dei voti, si è dimesso perché il suo nome è finito in un’indagine dell’Fbi su un giro di squillo d’alto bordo, rivelata in anteprima dal New York Times. Spitzer - celebre per le sue campagne contro la prostituzione - non è imputato né accusato di alcun reato, ma l’Fbi sta verificando se non possa essere incriminato per “structuring”, cioè per aver tentato di schermare l’origine dei fondi usati per saldare i conti del “club”; e per violazione della legge Mann del 1910, che proibisce “il trasporto di donne da uno stato all’altro per scopi immorali” (il governatore incontrò in un albergo di Washington una prostituta proveniente da New York).

Insomma, bazzecole. Tutto nasce dalle denunce di alcune banche all’Internal Revenue Service (l’Agenzia delle entrate) a proposito di pagamenti sospetti riconducibili a Spitzer. Paventando una storia di tangenti, l’Irs si rivolge all’Fbi, che investe il ministero della Giustizia e ottiene il permesso di intercettare telefoni e caselle e-mail dei protagonisti della sexy-agenzia. Le intercettazioni, con tutti i particolari dell’incontro fra il “cliente n.9” e la bella Kristen, finiscono in un affidavit di 47 pagine degli agenti dell’Fbi ai procuratori di New York Sud. E di lì sul New York Times - che rivela di aver avuto la notizia da “tutori della legge che han parlato a patto di restare anonimi” – e sui siti web (http://tinyurl.com/2ul3uy). Anziché pendersela con chi ha diffuso la notizia, il governatore ammette che è tutto vero e parla di “questione privata”. Ma il NYT gli dà dell’”arrogante” perché ha “tradito la famiglia e i concittadini”. Lui chiede scusa a tutti. E toglie il disturbo.

Immaginiamo un caso analogo in Italia. Il politico in questione strilla in Parlamento contro la “giustizia politicizzata” e la “fuga di notizie a orologeria”, ma promette che “resterò al mio posto perché non ho commesso reati, non sono indagato e comunque ho avuto il 70% dei voti”. Solidarietà bipartisan da destra, centro e sinistra. Il capo dello Stato, i presidenti delle Camere, il vicepresidente del Csm e il Garante della privacy deplorano “la gogna mediatica”, invocano il “segreto istruttorio”, auspicano “la fine dello scontro politica-giustizia” e sollecitano “una legge sulle intercettazioni”. Il ministro della Giustizia sguinzaglia gli ispettori in Procura, mentre gli investigatori vengono trasferiti in Sardegna. Bruno Vespa allestisce uno speciale “Porta a Porta” dal titolo: “Come Tortora e Anna Falchi”, ospite Andreotti. I quotidiani pubblicano editoriali di fuoco, tutti con lo stesso titolo: “Chi paga?”. Galli della Loggia, Panebianco e Ferrara osservano che “queste cose in America non potrebbero mai accadere”. Berlusconi e Veltroni, con una dichiarazione congiunta, riaprono la Bicamerale per “una moratoria sulle intercettazioni, aldilà degli steccati ideologici, come nelle grandi democrazie liberali”. Il cardinal Ruini, in onore del politico intercettato, organizza un’edizione straordinaria del Family Day.
(L'Espresso, 21 marzo 2008)

La Sinizzazione del Tibet


Fabio Cavalera
“La Cina ha tanta gente. Il Tibet ha tanto territorio. Dunque…”. Mao Zedong nel 1952, due anni dopo avere spedito l’Esercito Popolare a Lhasa e avere messo a tacere il piccolo Stato indipendente, chiarì subito le sue idee e i propositi che aveva. La rivoluzione, la lotta di classe, la liberazione dallo sfruttamento non c’entravano proprio nulla con quella terra e con quella povera gente che obbediva all’autorità spirituale del Dalai Lama. Il dittatore-imperatore pensava ad altro: gli premeva riprendersi una regione sulla base di una considerazione storica che faceva addirittura risalire la “proprietà” del Tibet alle dinastie del tredicesimo secolo – stabilendo così nei fatti una continuità fra il suo comunismo e il feudalesimo dell’antichità – e gli premeva pure appropriarsi di un altopiano e di montagne che rappresentavano una insostituibile e formidabile barriera di difesa dalle invasioni nemiche oltre che una riserva di ricchezza naturale (vi nascono i tre grandi fiumi d’Asia, il Gange, il Mekong e lo Yangtze). Mao Zedong per completare il suo disegno doveva però andare oltre alle strategie classiche della occupazione e della colonizzazione, occorreva cancellare molto in fretta ogni traccia di identità culturale e nazionale che non appartenesse alla storia Han, il ceppo etnico cinese. La frase pronunciata dal Grande Condottiero enunciava un programma politico: “quel tanto territorio”, diventava l’oggetto – nel senso più dispregiativo per lui e più lontano da ogni considerazione umanitaria – della sinizzazione del Tibet.

Mao se ne è andato del 1976 e la Cina, si dice, da allora è stata demaoizzata. Via ogni traccia del trentennio rosso. Via tutto, o quasi. E in quel poco o tanto che resta del maoismo – per il filosofo e sinologo francese Francois Julienne la Cina è stata “demaoizzata in nome di Mao” – c’è l’atteggiamento verso il Tibet, divenuto amministrativamente autonomo nel 1965, delle leadership che si sono succedute nella Repubblica Popolare dopo lo smantellamento dell’economia collettivista: repressione delle opposizioni, insediamenti forzati, ribaltamento dei concetti di maggioranza e di minoranza, la maggioranza tibetana che è diventata minoranza, la minoranza han che è diventata maggioranza. Il governo in esilio stima che i “coloni” siano oggi circa 8 milioni contro i 6,5 milioni di indigeni. Poi ci sono gli insediamenti militari: 500 mila soldati cinesi e alcuni basi dotate di testate nucleari. C’è stata una parentesi, negli anni del riformismo di Hu Yaobang, il segretario comunista che tentò di avviare la democratizzazione della Cina. Egli ammise che “il popolo tibetano non ha tratto alcun beneficio dalla nostra presenza”. Hu Yaobang morì prima della rivolta di Tienanmen ma le sue aperture erano già sul punto di fallire sotto i colpi dell’ala conservatrice.

Il Tibet in questi 48 anni è molto cambiato e la stessa semplicità e frugalità del monachesimo buddista ha subito qualche pesante “contaminazione” consumistica alla quale non è di certo estranea la suggestione esercitata dai milioni di turisti (nuova fonte di redditività della Provincia) che si avventurano in cerca di magie sempre più rare. La Cina ha esportato dalle sue grandi città la concezione della modernità intesa come realizzazione di grandi opere-simbolo del nuovo status di potenza acquisito grazie alla forza dell’economia. La sinizzazione è così passata attraverso il progetto della spettacolare linea ferroviaria che dal primo luglio 2006 unisce (per 1142 chilometri), a un’altitudine media di 4 mila metri, Golmud nella Provincia del Qinghai a Lhasa, passando per il tetto dei 5067 metri del passo Tanggula. E sta proseguendo con l’autostrada che dovrebbe portare niente meno che a 5.200 metri del campo base dell’Everest. Il responsabile dell’area del Qomolangma (Everest in tibetano) ha spiegato con queste parole il senso della cementificazione: “L’autostrada è una manna per lo sviluppo locale… gli scalatori potranno risparmiare energie”. No, non scherzava.La torcia olimpica transiterà il 20 e il 21 giugno. Con il suo messaggio di pace. E non solo: la Cina ribadirà al mondo che il Tibet è suo e che le aspirazioni sepratiste sono superate. Che la sinizzazione ha vinto. Come Mao aveva desiderato.
(Il Corriere della Sera)

Dazioni



di Filippo Facci
Sono andato su internet e ho fatto una chiave di ricerca con la parola «Santanchè» più l’espressione «mai data». Sono usciti più di 11mila risultati. La frase più ricorrente, presa da un’intervista rilasciata su Youtube, è questa: «Per fare carriera non sono mai scesa a compromessi, non ho mai ceduto, in altre parole non l’ho mai data». Poi c’è un titolo di Repubblica: «Non l’ho mai data per far carriera». Un titolo di Libero: «Ragazze, fate come me, non datela». Un titolo del Corriere: «La confessione: non l’ho mai data via». C’è persino un titolo del Gambero Rosso: «Non l’ho mai data per la carriera». E via così. Pensavo che la fonte fosse univoca, ma non è così: la signora Santanchè ha ripetuto il concetto più di una volta, il che significa che siamo di fronte a una precisa strategia comunicativa. Del resto la signora si occupa professionalmente di comunicazione, e anche l’articolo che state leggendo probabilmente fa parte di un meccanismo di reiterazione. Ne fa parte anche quanto da lei dichiarato al sito Affaritaliani.it: «Io non l’ho mai data e dico a tutte le ragazze di non darla. Nessun uomo si può presentare dicendo che gliel’ho data. Non ho paura che venga qualcuno a dire: la Santanchè me l’ha data. Ripeto, ragazze: non datela». Ciò posto, una sola osservazione: Signora Santanchè, abbiamo capito.
(Il Giornale)

Il Tibet e gli errori del papa


Federico Rampini
La replica del governo cinese all’appello del papa per la “tolleranza” in Tibet rivela i limiti del dialogo in corso fra i vertici del regime e la chiesa cattolica. La cautela di Benedetto XVI sulla tragedia del Tibet – criticata da molte parti – viene spiegata ora da un retroscena. Nella stesse ore in cui iniziava a divampare la protesta di Lhasa, veniva accolta in Vaticano per un incontro segreto una delegazione del governo cinese. La crisi del Tibet è scoppiata quindi mentre erano in corso negoziati ad altissimo livello per riallacciare i rapporti diplomatici fra la Santa Sede e la Repubblica popolare. Ma i toni usati dal regime di Hu Jintao sono significativi: la liberalizzazione dei culti religiosi in Cina deve avvenire alle condizioni dettate dall’autorità politica, sotto lo stretto controllo ideologico del partito comunista.
Se la chiesa romana si è illusa di guadagnarsi un trattamento di favore in cambio dei suoi silenzi sul Tibet, con ogni probabilità ha commesso un errore di calcolo. A Pechino il portavoce del ministero degli Esteri Qin Gang ha liquidato in una battuta le parole del papa. “La cosiddetta tolleranza – ha detto il portavoce governativo – non può esistere per i criminali, che devono essere puniti secondo la legge”. I criminali in questo caso sarebbero i rivoltosi tibetani, che il regime descrive come dei separatisti violenti istigati e manovrati dal Dalai Lama. Eppure il Vaticano in questa vicenda si è mosso con una cautela estrema. Domenica scorsa Benedetto XVI aveva addirittura ignorato il Tibet, scatenando polemiche. Mercoledì il pontefice ha rotto il silenzio ma ha usato espressioni generiche, che potevano essere indirizzate in egual maniera verso la repressione poliziesca e verso i tibetani. “Con la violenza non si risolvono i problemi ma solo si aggravano – ha detto Benedetto XVI all’udienza generale di mercoledì –. Dio illumini le menti di tutti e dia a ciascuno il coraggio di scegliere la via del dialogo e della tolleranza”. L’equidistanza del papa sembra trovare una spiegazione nel frangente delicato in cui si trovano le trattative semi-segrete fra Pechino e la Santa Sede. Nel novembre scorso il sottosegretario di Stato per gli Esteri, arcivescovo Pietro Parolin, era stato ricevuto a Pechino. La settimana scorsa si è tenuto un consulto ristretto con i vescovi di Hong Kong, Macao e Taiwan, cinesi ma non sottoposti al regime di Pechino. Infine l’arrivo in Vaticano della delegazione governativa cinese, proprio mentre s’infiammava il Tibet e scattava la reazione feroce.
La rottura tra la Cina comunista e la chiesa cattolica avvenne nel 1951, due anni dopo la vittoria della rivoluzione guidata da Mao Zedong. Nel periodo del comunismo più radicale venne imposto l’ateismo di Stato. Le persecuzioni contro i fedeli di tutte le religioni furono violente durante la Rivoluzione culturale dal 1966 al 1976. Dopo la morte di Mao, tra le riforme promosse da Deng Xiaoping ci fu anche una graduale liberalizzazione dei culti. Buddismo, islam, cristianesimo sono tollerati però solo a condizione che i monaci, gli imam e i sacerdoti siano formati nelle istituzioni gestite dal governo, indottrinati politicamente, e disposti a giurare una fedeltà assoluta al partito comunista. I cattolici hanno subìto una sorta di scisma fra coloro che continuano a riconoscere l’autorità del papa – la “chiesa della penombra” con circa otto milioni di fedeli, tuttora soggetta a persecuzioni – e i quattro milioni che frequentano le messe celebrate dalla “chiesa patriottica”. Da anni procede un graduale riavvicinamento col Vaticano, in vista di una storica riappacificazione. Ufficialmente i due principali oggetti del negoziato sono la rottura delle relazioni tra Vaticano e Taiwan (un prezzo che la chiesa dovrà pagare come tutte le nazioni che hanno rapporti diplomatici con Pechino), e la nomina dei vescovi.
L’anno scorso una conferma del disgelo si ebbe quando alcune nomine di vescovi “patriottici” compiute dal governo cinese ottennero dal Vaticano una sorta di nulla osta ufficioso. Ma un accordo su Taiwan e sulle nomine dei vescovi, e la ripresa delle relazioni diplomatiche, possono lasciare irrisolta la questione di fondo: la libertà religiosa così come la intende il regime cinese ha un’applicazione molto ristretta. E’ facile immaginare cosa accadrebbe a un sacerdote che osasse contestare l’aborto, che è una legge dello Stato e viene usato massicciamente in Cina per il controllo delle nascite. Un sermone domenicale contro l’aborto o contro la pena di morte potrebbe essere interpretato come un atto sovversivo, una sfida al governo, e scatenare la repressione. Anche diffondere tra i cattolici cinesi un messaggio del papa sulle questioni internazionali o sui diritti umani – se non coincide con le vedute del regime – scatenerebbe reazioni. Dietro l’avversione dei dirigenti cinesi per il Dalai lama c’è il rifiuto categorico che una comunità religiosa possa avere un’autorità spirituale indipendente. La chiesa cattolica forse spera di negoziare un trattamento più favorevole perché i suoi seguaci sono una piccola minoranza, a differenza dei buddisti. Ma la sorte degli uiguri musulmani – altra minoranza religiosa in Cina – non sembra autorizzare illusioni.
(La Repubblica Giovedì, 20 Marzo 2008)

Più pilu pì tutti


ROMA - Era uno dei tanti candidati berlusconiani alla Camera, forse uno dei più anonimi. Avevate mai sentito parlare in passato di Andrea Verde, in corsa per la circoscrizione estero, ripartizione Europa, sede Parigi? Probabilmente no. Provate a cercarlo adesso sul web. E vedrete come il suo nome sia legato alla regia di "Sotto il vestito la sorca", film ambientato nell'alta moda, la cui trama toglie ogni residua sorpresa: "Bellissime, elegantissime, puttanissime. Ammirate e in... ate". Andrea Verde viene citato anche come "production manager" di un'altra pellicola di impegno: "Papà, ti scopo tua moglie".

Il Sole 24ore gli ha dedicato un trafiletto e lui non ha avuto più pace. Il mondo dei blogger l'ha puntato. Sono andati in cerca delle sue produzioni hard, hanno ironizzato sul suo programma elettorale che parla di "solidarietà e valori cristiani", di cui la società avrebbe tanto bisogno.

A nulla è valsa la precisazione sul quotidiano economico: "Io non sono regista di film porno, ho lavorato solo come contabile alla Unimat che, in effetti, produce anche audiovisivi per un pubblico adulto...". Sarà. I blogger, per natura diffidenti, mantengono il loro scetticismo.

Perché mai se il candidato Verde è solo un esperto in contabilità (in effetti è stato commentatore economico de La Prealpina di Varese, e ha lavorato in Enichem France, settore controllo gestione) la sua società lo associa a "Sotto il vestito la sorca" e lo manda addirittura a ritirare un premio al festival pornografico "Venus Paris"? Eccolo là, in prima fila, accucciato col trofeo in mano, alle spalle una prorompente dama, seno open air. Lui insiste: "Ho la fedina penale pulita, ho fatto della solidarietà il mio principale significato di vita".

Che sia di carattere gioviale questo inedito candidato Pdl per l'Europa è evidente dalla gratitudine che gli portano i suoi amici, dalle spensierate feste cui partecipa, visibili sul blog di Mike Meglio. Feste piene di "belles jeunes femmes" come Cynthia Lavigne, che accoglie in guepière nera i suoi web estimatori. "Dal 2000 opero nel settore comunicazione", si legge nella biografia di Verde che, curiosamente, tralascia di esibire l'austera attività di contabile. Nel suo sito fa sapere di porre "un accento speciale sulla cultura" e di voler "potenziare e riqualificare i contenuti del palinsesto di Rai International".

Quelle carogne di blogger sono andati alla ricerca di dichiarazioni politiche. Ne hanno trovata una, pare, sull'Alitalia, in cui il candidato Pdl si preoccupa della "penetrazione prorompente delle compagnie low cost".
(La Repubblica)

ALITALIA: DESTINAZIONE FINALE

L'offerta di Air France può apparire indigesta. Ma i margini di trattativa sono ridotti quasi a zero perché Alitalia ha accumulato oltre 1,7 miliardi di debiti finanziari, perde centinaia di milioni l'anno insieme a quote del mercato nazionale, internazionale e intercontinentale, ha una flotta tra le più diversificate e vecchie d'Europa. E anche perché non ci sono state, in quindici mesi, concrete offerte alternative. I diritti di traffico (e gli slots) sono il suo unico valore. Se salta la scadenza del 31 marzo, però, andrà inevitabilmente verso il fallimento.

(La Voce.info)


Per l'articolo intero cliccare qui

Il comitato etico

Nel Popolo della libertà, circa i temi eticamente sensibili, si è formato un gruppo di lavoro composto da Gaetano Quagliariello, Eugenia Roccella, Mara Carfagna, Barbara Saltamartini e Alfredo Mantovano. Questo gruppo ha tenuto una conferenza stampa che ho riascoltato più volte.
L’esistenza di una pluralità di opinioni «etiche» in una stessa parte politica, in sostanza, è stata denigrata, e con essa quella libertà di coscienza che il liberista Silvio Berlusconi ha tuttavia sempre avallato. Liquidando eventuali «scarti di coscienza individuale», il gruppo ha parlato di «visione antropologica condivisa» e quindi di soluzioni, le loro, che «valgono per tutti gli aderenti al Pdl».
Ecco, vorrei sapere su quali fonti si basi la loro valutazione: chi ci assicura, ossia, che l’elettorato del Pdl la pensi come loro a proposito per esempio della contraccezione («promuove una cultura dell’aborto») o del testamento biologico («il nome gentile dell’eutanasia»).
L’opinione degli elettori su certi temi sociali ed economici è arcinota, ed è fondata su fonti plurime, non ultimi studi e sondaggi. Non vorrei che sui temi eticamente sensibili, mi permetto, il gruppo di lavoro volesse orientare l’elettorato anziché recepirlo: aver parlato con due o tre associazioni non è sufficiente. Scusate, ma la questione non è di poco conto.

(Il Giornale, 21 marzo)

giovedì 20 marzo 2008

La terza settimana.


Nel post sulla stagflazione ho fatto un cenno al ruolo delle banche centrali nelle politiche di lotta all'inflazione o alla deflazione. Vediamo cosa è successo negli ultimi anni. Con la creazione della moneta unica europea, l'euro, gli stati membri dell'Unione Europea hanno compiuto un grande atto di delega della loro sovranità, almeno in campo economico, hanno deciso cioè di rinunciare alla loro sovranità sul controllo della moneta e di delegare tale compito a un solo organo sovranazionale: la Banca Centrale Europea (BCE). La gloriosa Bundesbank, la Banque de France, la Banca d'Italia e tutte le altre banche centrali europee perdono uno dei due poteri fondamentali: quello di governare la moneta. Di fatto hanno mantenuto solo l'altro potere fondamentale, quello di svolgere un ruolo di vigilanza sull'operato delle banche commerciali. Bene, fino dall'inizio la BCE ha fatto capire chiaramente quale sarebbe stato il suo obiettivo irrinunciabile: la lotta all'inflazione.

Tutto l'apparato macroeconomico europeo, le politiche fiscali dei paesi membri imbrigliate dai parametri del deficit e del debito (il famoso obbligo di mantenimento del rapporto deficit/pil entro il 3%)e le politiche monetarie della Banca Centrale hanno, dall'entrata in vigore dell'euro un unico obiettivo: tenere a bada l'inflazione. E la BCE ha svolto bene il suo compito. Di fatto in questi anni non ha mai operato se non nel senso di aumentare il TASSO UFFICIALE DI SCONTO. Cerchiamo di spiegare un po'.
Una banca centrale può intervenire nell'economia monetaria in due modi:

  1. con la manovra del Tasso ufficiale di Sconto
  2. con le manovre del mercato aperto.
La prima è molto semplice, o si alza o si abbassa il tasso di sconto. Se si alza le banche commerciali sono costrette ad aumentare i tassi di interesse che praticano ai clienti (più per un effetto di persuasione morale che per altro), il denaro costa di più, se ne domanda meno in banca, ci sono meno prestiti anche per le spese di consumo e la moneta in circolazione diminuisce. L'inflazione è tenuta sotto controllo di conseguenza.
Con le manovre del mercato aperto l'effetto si raggiunge per altre vie, in pratica la banca centrale vende sui mercati i titoli del suo immenso portafoglio e raccoglie moneta, cioè la sterilizza.

Ora, ritornando alla Banca Centrale Europea, cosa è successo? Dicevamo che per questa sua missione di lotta all'inflazione ha sempre operato nel senso di aumentare il tasso ufficiale di sconto, mai una diminuzione anche con una economia europea in affanno che avrebbe tratto un sospiro di sollievo se il denaro fosse costato un po' meno: gli imprenditori magari avrebbero fatto qualche nuovo investimento che non avrebbe di certo guastato. Ora, questi aumenti del TUS cosa hanno prodotto? Un aumento del costo dei mutui ovviamente, di quei mutui che milioni di italiani hanno contratto per comprare la casa. Milioni di famiglie italiane hanno visto aumentare paurosamente il costo del mutuo, si calcola infatti un aumento della rata media da 550 euro mensili a 771 euro mensili una bella botta non c'è che dire soprattutto per una famiglia mono-reddito. E qui si aprirebbe una bella discussione sulla responsabilità delle banche che hanno invogliato gli italiani a sottoscrivere mutui a tasso variabile esponendoli così a un rischio pauroso, quello di un improvviso aumento dei tassi, cosa che si è puntualmente verificata. Quindi, se oggi tante famiglie italiane non riescono ad arrivare alla fine della terza settimana con il loro reddito, una parte della colpa è anche da attribuire all'atteggiamento intransigente della BCE nei confronti del fantasma dell'inflazione.

C'è da dire a difesa della banca guidata da Trichet che una moneta difesa dall'inflazione è anche una moneta che tutti chiedono e tutti accettano nei pagamenti internazionali. Si proprio così, questo è il motivo per cui l'euro è oggi la moneta più forte e stabile del pianeta, più del vecchio e traballante dollaro o dello yen giapponese. E l'euro forte ci tiene protetti dagli aumenti vertiginosi dei prezzi del petrolio. In conclusione, se dobbiamo tirare le orecchie alla BCE per l'aumento del costo dei mutui, dobbiamo ringraziarla per la stabilità della nostra moneta e per i prezzi, nonostante tutto non eccessivi dei prodotti derivati dal petrolio. Come sempre in economia nessuna decisione può avere conseguenze solo positive.

I vescovi e le regole


GIAN ENRICO RUSCONI
E’ patetico parlare o protestare contro «l’ingerenza dei vescovi». È tempo di modificare l'analisi e il linguaggio per mettere a fuoco quanto sta accadendo nel nostro paese. Siamo infatti davanti all'intreccio intimo tra i meccanismi democratici e la loro rivendicazione da parte della gerarchia ecclesiastica per la promozione della sua dottrina.

Quali sono le conseguenze di questa strategia per la funzionalità della nostra democrazia? Non si sta alterando il rapporto tra il principio della cittadinanza costituzionale e il suo uso strumentale in vista delle richieste di una parte di cittadini che si affidano all'autorevolezza della Conferenza episcopale? Non si tratta infatti più soltanto dell'utilizzo dell'apparato legale dello Stato per favorire o bloccare questa o quella iniziativa di legge, ma ora si contesta esplicitamente il sistema elettorale come tale.

L'operazione è legittima eppure insidiosa. In democrazia non solo ogni critica è giustificata e benvenuta, ma nel caso specifico della legge elettorale ci sono state molte, condivise, ampiamente ragionate critiche al sistema elettorale vigente. Tuttavia nel caso dell'intervento Cei, nel contesto della sua rivendicazione della «intrattabilità dei valori», viene il sospetto che la preoccupazione della Chiesa non sia tanto la funzionalità della democrazia quanto i vantaggi/svantaggi che derivano immediatamente per la rappresentanza politica della sua strategia pubblica. La democrazia sta a cuore soltanto quando serve ai «valori»?

L'altra faccia di questa realtà è la sicurezza con cui i vertici della Conferenza episcopale italiana enunciano le loro direttive a nome di tutti i cattolici italiani. Senza preoccuparsi della presenza di orientamenti diversi nella stessa comunità ecclesiale. Sappiamo infatti che tra i credenti ci sono linee differenti di strategia (non necessariamente di dottrina), ma sono zittite o mortificate. Soprattutto politicamente disinnescate. L'ultimo argomento usato contro di esse è la tesi che «non si possono separare i valori, scegliendone qualcuno e rinunciando agli altri». Una volta questo si chiamava «integralismo» che rende difficile trovare punti di convergenza con i concittadini che la pensano in modo diverso. Ma non è questa l'essenza della democrazia? Senza bisogno di aggiungere l'aggettivo «laica»?

In realtà da mesi ormai il dibattito su democrazia e laicità si è incattivito. Se vogliamo ricominciare a discutere, dobbiamo fare chiarezza su alcuni punti preliminari. Innanzitutto, la gerarchia deve abbandonare il lamento sulla presunta esclusione dei cattolici dalla «sfera pubblica» o dal «discorso pubblico» - affermazione che è contro ogni evidenza. (Quando poi sento lamentare «l'esclusione di Dio» personalmente rimango turbato. Ma questa è una riflessione soggettiva: prendo atto che molti miei concittadini ritengono opportuno mettere in campo Dio).

Il dialogo tra laici e cattolici è diventato una finzione. Soprattutto da quando i cattolici si proclamano i «veri laici» e degradano a «laicisti» chi non la pensa come loro. Si dialoga quando si parte dal presupposoto che gli interlocutori hanno reciprocamente «buone ragioni» su cui confrontarsi, e sono disposti magari a cambiare opinione. Dialogare non è elencare i propri convincimenti per dire che sono «intrattabili», o addirittura nella convinzione di possedere «i valori» che la controparte non possiede e che è quindi rappresentata come un pericolo per l'integrità morale della nazione. Con questi presupposti non ha senso dialogare.

Nessuno contesta al cattolico e/o credente la piena legittimità di comportarsi come tale pubblicamente e quindi di avanzare ragioni che danno rilevanza politica alle sue esigenze identitarie. Ma quando queste esigenze/pretese assumono pubblicamente la forma enfatica della «non negoziabilità dei propri valori», allora nascono serie difficoltà per la democrazia.

In democrazia «non negoziabili» sono soltanto i diritti fondamentali, tra i quali al primo posto c'è la pluralità dei convincimenti, pubblicamente argomentati. A essa deve essere subordinato l'impulso di far valere i propri valori (per quanto soggettivamente legittimi) nei confronti degli altri cittadini. Di questa concezione della democrazia non c'è traccia nelle dichiarazioni della Cei. Ma è soltanto su questi presupposti che ha senso aprire lo spazio al confronto - anche duro - delle ragioni che sono condivise o che dividono, e quindi alle regole del gioco democratico.

Ma le regole hanno valore in sé, non possono essere costruite su misura per vincere.
(La Stampa)

mercoledì 19 marzo 2008

Ma che roba è?

martedì 18 marzo 2008

Cinesi Liberi!

Lecco ai Leccesi!

Tibetani Liberi!

I redditi dei politici

Ecco, di seguito, la classifica dei redditi per il 2006 dei leader di partito eletti alla Camera dei Deputati, secondo quanto si evince dalle dichiarazioni dei redditi per il 2006 (valori in Euro) :

Berlusconi 139.245.570
Santanchè 237.665
Bertinotti 233.195
Nucara 223.412
Prodi 217.221
Casini 176.009
Di Pietro 175.137
Pecoraro 173.999
D'Alema 166.989
Rutelli 159.527
Maroni 150.158
Fini 147.814
Cesa 132.540
Diliberto 128.464
Boselli 126.254
Giordano 124.802
Fassino 124.292.

Ed ecco la top ten del Senato:
Ghedini 1.223.463
Fruscio 1.102.799
Barba 824.166
Scarabosio 812.227
Calvi 751.863
Ciampi 720.851
Casoli 711.405
Costa 640.277
Pininfarina 582.209
Dini 554.925

(Il Corriere della Sera)

La notizia che aspettavamo

Los Angeles, 09:10
VIP: PACE FATTA TRA MEL GIBSON E BRITNEY SPEARS
(La Repubblica)


lunedì 17 marzo 2008

Stagflazione

In economia ci sono dei termini che potrebbero sembrare di difficile comprensione. Uno di questi è la stagflazione.
Il termine comparve per la prima volta negli anni sessanta per indicare quella particolare situazione macroeconomica caratterizzata da una contestuale presenza di inflazione e stagnazione dell'economia di un paese. Prima degli anni sessanta, le teorie economiche consideravano possibili due soli schemi: quello della coesistenza di inflazione e crescita dell'economia, oppure quello della coesistenza di deflazione e recessione dell'economia. Il ragionamento alla base di questi due ragionamenti è molto semplice.

John Maynard Keynes

In una economia in crescita, domanda e produzione si inseguono, i consumatori spinti da una situazione economica favorevole e da prospettive altrettanto ottimistiche, aumentano la domanda di beni sui mercati; le imprese hanno difficoltà a soddisfare la crescente domanda e allora i prezzi, che sono lo strumento per ridurre i conflitti tra domanda ed offerta, tendono a crescere (se un bene costa di più se ne domanderà di meno). Da qui la spinta inflazionistica collegata con una rapida crescita dell'economia. In una economia in recessione o in depressione e ancor più in stagnazione, il ragionamento è opposto: i consumatori domandano pochissimi beni e servizi, le imprese sono in difficoltà e cercano di stimolare la domanda abbassando i prezzi dei loro prodotti sui mercati. Si innesca la spirale verso il basso di prezzi-domanda-offerta.

Le grandi teorie economiche del novecento, quella keynesiana in particolare, funzionavano benissimo, con le loro ricette, per risolvere nel medio periodo, cioè nell'arco di 4 o 5 anni, le due situazioni critiche possibili: crescita-inflazione e stagnazione-deflazione. Keynes suggeriva in ogni caso di intervenire sulla massa di moneta in circolazione. Se c'è recessione e la domanda dei consumatori è debole, lo Stato può intervenire con la spesa pubblica, realizzare grandi opere, costruire strade e ponti, ferrovie e autostrade. Immette così una enorme massa di liquidità nel sistema, stimola la domanda e i prezzi tendono a salire. Ci si avvicina all'equilibrio. Se c'è crescita eccessiva lo Stato deve comportarsi in modo opposto, deve ridurre la quantità di moneta esistente nel sistema, come? Ad esempio alzando il tasso di sconto, il denaro in banca costa di più e gli imprenditore ne chiedono meno in prestito; oppure può collocare titoli del debito pubblico sul mercato, così i cittadini danno denaro allo stato in cambio di titoli. La quantità di denaro nelle tasche dei cittadini si riduce, domandano meno beni, l'economia tende di nuovo verso l'equilibrio.

Tutto ciò entra in crisi negli anni sessanta. Compare un fenomeno nuovo, gli economisti non sanno che pesci pigliare, come spiegare il fatto che in una economia pure in stagnazione i prezzi potessero salire a ritmi vertiginosi, anche del 20% all'anno come in Italia. Una ragione fu individuata nella conflittualità sociale: i sindacati sono forti in quegli anni, le lotte sociali molto dure, gli operai vogliono migliori condizioni di vita e ottengono aumenti salariali. Le imprese finanziano i maggiori salari con aumenti dei prezzi dei beni che producono, ma se i prezzi aumentano, i sindacati chiedono e ottengono nuovi aumenti dei salari e così via. Si innesca la famosa spirale dei salari e dei prezzi, è un gatto che cerca di mordersi la coda. Le economie occidentali entrano in una crisi profonda, la disoccupazione è altissima, le tensioni sociali segnano uno dei periodi più drammatici delle storia economica moderna. Dalla crisi escono dopo circa un ventennio con gli anni ottanta e dopo drammatici processi di ristrutturazione industriale.

Ancora oggi non c'è un modello di intervento per riportare una economia su un sentiero di crescita in equilibrio nell'ipotesi di stagflazione: è come cadere nelle sabbie mobili, si viene spinti sempre più in basso e uscirne è difficile. Per contrastare l'inflazione infatti, le Banche Centrali dovrebbero "asciugare" la liquidità esistente. cioè ridurre le monete nelle nostre tasche, ma se diminuisce il denaro che possiamo spendere acquistiamo meno beni, le imprese producono meno, la disoccupazione anziché diminuire aumenta. In conclusione, la stagflazione è una brutta gatta da pelare.

Jena

Ultimatum dell'Italia alla Cina: la situazione è ormai intollerabile e se non smettete subito le violenze, se non liberate immediatamente i prigionieri politici, se non la piantate con le stragi e le condanne a morte indiscriminate, se non ripristinate la libertà e la democrazia, se non rispettate i diritti umani più elementari, saremo costretti a colpirvi duramente.
Col nostro severo biasimo.
(La Stampa)

domenica 16 marzo 2008

Tibet, il terrore firmato Hu Jintao


di FEDERICO RAMPINI
E’ la più grande rivolta popolare in Tibet dal 1989, un anno di infausta memoria: allora il plenipotenziario del partito comunista cinese a Lhasa era Hu Jintao, oggi presidente della Repubblica popolare. Hu Jintao l’8 marzo 1989 non esitò a dichiarare la legge marziale e a scatenare l’esercito contro la popolazione indifesa. Si acquistò i galloni dell’uomo forte, i suoi metodi servirono da prova generale per il massacro di Piazza Tienanmen tre mesi dopo. Sono passati quasi vent’anni ma il Tibet non ha mai smesso di essere una polveriera dove si accumulano le tensioni create dalla politica di “assimilazione forzata”. La fiammata di questi giorni può sembrare improvvisa e inaspettata, in realtà da mesi si segnalavano episodi di protesta nei monasteri, arresti, deportazioni e torture dei religiosi fedeli al Dalai Lama.

C’è una logica stringente dietro questa escalation. Una maggioranza dei tibetani continua a considerare illegittima l’invasione dell’armata maoista che nel 1950 ha annesso il loro territorio. Sentono che il tempo gioca contro di loro, per l’invasione continua di immigrati “han” (l’etnìa maggioritaria cinese) che sconvolge gli equilibri della popolazione locale e ne snatura l’identità culturale. Il precedente della rivolta birmana nel settembre scorso è stato seguito con passione, solidarietà e sofferenza da parte dei buddisti tibetani: anche questo popolo ha un’attaccamento straordinario alla propria religione, e non tollera le violenze contro i monaci. La gente di Lhasa che ha osato protestare in queste ore sogna di avere miglior sorte del popolo birmano. Si affida all’influenza del Dalai Lama, un leader spirituale che gode di un immenso prestigio nel mondo. Inoltre la Cina non è un piccolo paese arretrato e isolato come la Birmania. Mentre a Lhasa vige il terrore poliziesco, a poche ore di volo Pechino si appresta a celebrare i Giochi come una prova della sua apertura verso il resto del mondo, accogliendo milioni di turisti stranieri.

Ora o mai più: è il sentimento che ha spinto molti tibetani a scendere in piazza. C’è la speranza che nell’anno delle Olimpiadi, con gli occhi del mondo puntati su Pechino, Hu Jintao avrà qualche esitazione prima di ordinare una nuova carneficina. Per gli occidentali la politica cinese in Tibet appare non solo ignobile ma anche assurda. Con realismo e moderazione, il Dalai Lama ha smesso da decenni di rivendicare l’indipendenza e chiede solo una ragionevole autonomia. Basterebbe applicare al Tibet il sistema in vigore a Hong Kong: porre dei limiti all’immigrazione dal resto della Cina, consentire forme di autogoverno per preservare la fisionomia culturale e proteggere l’ambiente naturale, pur lasciando a Pechino le competenze in materia di politica estera e difesa. Ma anche un modesto federalismo appare al regime cinese come una concessione intollerabile, destabilizzante. Pechino continua a bollare il Dalai Lama come un “secessionista” con cui è impossibile dialogare. La paura che provano i tibetani è, specularmente, la certezza di Hu Jintao: il fattore tempo gioca in favore della Cina. Con 3,8 milioni di km quadrati di superficie, quanto l’Europa occidentale, il Tibet occupa un terzo della Repubblica popolare ma i suoi sei milioni di abitanti sono appena lo 0,5% dei cinesi. Lo squilibrio demografico è immane, è difficile resistere alla “sinizzazione”.

Il regime può contare anche su un consenso reale fra la maggioranza dei cinesi sulla questione tibetana. Imbevuti di nazionalismo fin dalle scuole elementari, imparano sui manuali di storia solo la versione della propaganda ufficiale: il Tibet è “sempre” appartenuto alla Cina; dietro le velleità di autonomia ci sono forze che vogliono indebolire la nazione, proprio come nell’Ottocento e primo Novecento quando gli imperialismi occidentali e giapponese “amputarono” l’Impero Celeste di pezzi di territorio, da Hong Kong alla Manciuria. Nazionalismo cinese, superiorità demografica, sviluppo economico, sono i rulli compressori che lavorano ad appiattire il Tibet. Mentre la nuova ferrovia rovescia fiumane di “coloni”, vasti quartieri di Lhasa già hanno subito uno stravolgimento: ipermercati, shopping mall di elettronica, banche e uffici turistici sono gestiti prevalentemente dai cinesi han, più istruiti e abili negli affari. Lo stesso turismo di massa violenta l’anima dei luoghi: il Potala Palace, ex dimora del Dalai Lama trasformato in museo, è circondato dai torpedoni, invaso da comitive cinesi volgari e arroganti.


Eppure dietro la sicumera di Hu Jintao traspare il germe di un dubbio. L’incapacità di aprire un dialogo col Dalai Lama rivela un’insicurezza. Il partito comunista cinese non accetta che dentro la società civile vi siano movimenti organizzati, autorità alternative. I culti religiosi sono stati autorizzati dopo la fine del maoismo ma sono sottoposti a controlli stringenti, indottrinamenti politici, obblighi di fedeltà assoluta al governo. La figura del Dalai Lama è inaccettabile perché è un’autorità spirituale indipendente. Al di fuori del Tibet la Cina ha altri 150 milioni di buddisti praticanti: guai se dovesse insinuarsi nel resto del paese l’idea che la religione può diventare il tessuto connettivo di una società civile autonoma. Tra gli incubi della nomenklatura c’è lo scenario Solidarnosc, proiettato in versione buddista.
Nonostante le sue fobìe totalitarie, la classe dirigente cinese gestisce tuttavia una superpotenza fortemente integrata nelle relazioni internazionali. La Repubblica popolare è membro permanente del Consiglio di Sicurezza Onu, dell’Organizzazione del commercio mondiale; è il principale partner commerciale dell’Unione europea e degli Stati Uniti. Ha l’ambizione di essere un attore responsabile nella governance globale. E’ indispensabile che l’Occidente eserciti ogni pressione per far capire a Hu Jintao i rischi che corre in Tibet: vanno ben al di là dei Giochi olimpici. Lo sviluppo con cui i dirigenti di Pechino si garantiscono un consenso reale fra una parte della popolazione, può incappare in serie turbolenze se la Cina decide di presentarci un volto odioso e minaccioso.

(La Repubblica)

Si sta mettendo male.


Il governo cinese: "Le Ong abbandonino il Tibet entro domani"


Il governo cinese ha ordinato alle organizzazioni non governative straniere di lasciare il Tibet, teatro di violenze e scontri che, secondo il governo tibetano in esilio, hanno provocato la morte di 80 persone. A darne notizia è stato il volontario di una delle Ong impegnate nella regione parlando con la radio tedesca "Frankfurter Rundschau": "Tutti gli impiegati delle Ong sono stati avvertiti di lasciare Lhasa entro domani, lunedì". E sempre domani a mezzanotte scade l'ultimatum lanciato dalle autorità di Pechino ai rivoltosi perchè si consegnino: se lo faranno saranno trattati con 'clemenza', hanno assicutato.

Papa: prega per l'Iraq, tace sul Tibet

Un fermo appello sull'Iraq, con accenti molto critici verso la guerra scatenata cinque anni fa dagli americani, nessun riferimento alla repressione cinese delle proteste in Tibet: così il Papa ha oggi introdotto la preghiera dell'Angelus dal sagrato di San Pietro, dopo aver celebrato la messa delle Palme

(La Repubblica)

E l'Italia sta a guardare


(ASCA) - Roma, 14 mar - La Novegia sta per aggiungersi all'ormai corposo elenco dei paesi europei in cui una coppia omosessuale puo' scambiarsi una promessa di ''amore eterno'' attraverso il matrimonio o semplicemente vedere riconosciuti i propri diritti di coppia con le unioni civili. Un lungo percorso partito dall'Olanda nell'aprile del 2001 con la normativa che consente a gay e lesbiche di sposarsi e anche di adottare dei figli. Nel 2003 e' stata la volta del Belgio con una legge che permette il matrimonio tra omosessuali, ma non l'adozione. E ancora: nel 2005, la Spagna di Zapatero ha approvato una legge che non solo legalizza il matrimonio omosessuale equiparandolo a quello tra eterosessuali, ma consente anche le adozioni. Sempre dal 2005 anche in Polonia vige una legge sul matrimonio gay. Ma il matrimonio non e' l'unico modo per veder riconosciuta la propria unione sentimentale dallo Stato e a partire dal lontano 1989 la Danimarca, primo paese in assoluto in Europa, ha riconosciuto un'unione registrata tra omosessuali ufficializzata con una cerimonia civile. Dopo 10 anni e' arrivata anche la Francia che, nel 1999, con il Pacs (patto civile di solidarieta'), ha approvato una soluzione che accomuna coppie dello stesso sesso, ma puo' anche riguardare unioni di fatto tra coppie di amici. Nel 2000 e' stata la volta della Germania con una legge sulla ''vita in comune'' tra gay. Nel 2002 la Corte costituzionale ha inoltre stabilito che i matrimoni tra omosessuali sono compatibili con la Costituzione e nel 2004 ai conviventi e' stato riconosciuto il diritto di adozione congiunta. Sempre dal 2004 in Lussemburgo e' in vigore la cosiddetta ''partnership registrata'' applicabile a tutte le coppie che garantisce diritti simili, per quanto riguarda welfare e fisco, a quelli delle coppie sposate. Tre anni prima, in Portogallo sono state approvate due leggi che hanno disciplinato e le situazioni giuridiche della economia comume e delle ''Uniao de facto''. Tornando del Nord Europa, in Svezia, il Parlamento ha approvato nel 1994 la legge che regolarizza la convivenza tra omosessuali e dove le coppie registrate, dal 2002, possono adottare bambini provenienti da altri paesi. In Austria, dal 2005, le coppie gay possono firmare un accordo di unione alla presenza di un notaio. La Camera dei deputati della Repubblica Ceca, nel 2006, ha approvato una legge sulle unioni registrate per le persone dello stesso sesso. In Finlandia e' in vigore dal 2002 una legge per le unioni civili che garantisce la maggior parte dei diritti che acquisiscono le coppie eterosessuali che si sposano con il matrimonio civile. E' invece del 2005 il ''Civil Partnership Act'', che riconosce alle coppie dello stesso sesso la possibilita' di vincolarsi in un'unione registrata simile al matrimonio, ma, da un punto di vista giuridico, molto diverso. Prima dell'estate, inoltre, nella repubblica d'Irlanda entrera' in vigore la legge sulle unioni civili che riconoscera' ufficialmente anche le coppie irlandesi che si sono unite in Gran Bretagna, secondo la stessa ''Civil partnership''.



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