di FEDERICO RAMPINI
E’ la più grande rivolta popolare in Tibet dal 1989, un anno di infausta memoria: allora il plenipotenziario del partito comunista cinese a Lhasa era Hu Jintao, oggi presidente della Repubblica popolare. Hu Jintao l’8 marzo 1989 non esitò a dichiarare la legge marziale e a scatenare l’esercito contro la popolazione indifesa. Si acquistò i galloni dell’uomo forte, i suoi metodi servirono da prova generale per il massacro di Piazza Tienanmen tre mesi dopo. Sono passati quasi vent’anni ma il Tibet non ha mai smesso di essere una polveriera dove si accumulano le tensioni create dalla politica di “assimilazione forzata”. La fiammata di questi giorni può sembrare improvvisa e inaspettata, in realtà da mesi si segnalavano episodi di protesta nei monasteri, arresti, deportazioni e torture dei religiosi fedeli al Dalai Lama.
C’è una logica stringente dietro questa escalation. Una maggioranza dei tibetani continua a considerare illegittima l’invasione dell’armata maoista che nel 1950 ha annesso il loro territorio. Sentono che il tempo gioca contro di loro, per l’invasione continua di immigrati “han” (l’etnìa maggioritaria cinese) che sconvolge gli equilibri della popolazione locale e ne snatura l’identità culturale. Il precedente della rivolta birmana nel settembre scorso è stato seguito con passione, solidarietà e sofferenza da parte dei buddisti tibetani: anche questo popolo ha un’attaccamento straordinario alla propria religione, e non tollera le violenze contro i monaci. La gente di Lhasa che ha osato protestare in queste ore sogna di avere miglior sorte del popolo birmano. Si affida all’influenza del Dalai Lama, un leader spirituale che gode di un immenso prestigio nel mondo. Inoltre la Cina non è un piccolo paese arretrato e isolato come la Birmania. Mentre a Lhasa vige il terrore poliziesco, a poche ore di volo Pechino si appresta a celebrare i Giochi come una prova della sua apertura verso il resto del mondo, accogliendo milioni di turisti stranieri.
Ora o mai più: è il sentimento che ha spinto molti tibetani a scendere in piazza. C’è la speranza che nell’anno delle Olimpiadi, con gli occhi del mondo puntati su Pechino, Hu Jintao avrà qualche esitazione prima di ordinare una nuova carneficina. Per gli occidentali la politica cinese in Tibet appare non solo ignobile ma anche assurda. Con realismo e moderazione, il Dalai Lama ha smesso da decenni di rivendicare l’indipendenza e chiede solo una ragionevole autonomia. Basterebbe applicare al Tibet il sistema in vigore a Hong Kong: porre dei limiti all’immigrazione dal resto della Cina, consentire forme di autogoverno per preservare la fisionomia culturale e proteggere l’ambiente naturale, pur lasciando a Pechino le competenze in materia di politica estera e difesa. Ma anche un modesto federalismo appare al regime cinese come una concessione intollerabile, destabilizzante. Pechino continua a bollare il Dalai Lama come un “secessionista” con cui è impossibile dialogare. La paura che provano i tibetani è, specularmente, la certezza di Hu Jintao: il fattore tempo gioca in favore della Cina. Con 3,8 milioni di km quadrati di superficie, quanto l’Europa occidentale, il Tibet occupa un terzo della Repubblica popolare ma i suoi sei milioni di abitanti sono appena lo 0,5% dei cinesi. Lo squilibrio demografico è immane, è difficile resistere alla “sinizzazione”.
Il regime può contare anche su un consenso reale fra la maggioranza dei cinesi sulla questione tibetana. Imbevuti di nazionalismo fin dalle scuole elementari, imparano sui manuali di storia solo la versione della propaganda ufficiale: il Tibet è “sempre” appartenuto alla Cina; dietro le velleità di autonomia ci sono forze che vogliono indebolire la nazione, proprio come nell’Ottocento e primo Novecento quando gli imperialismi occidentali e giapponese “amputarono” l’Impero Celeste di pezzi di territorio, da Hong Kong alla Manciuria. Nazionalismo cinese, superiorità demografica, sviluppo economico, sono i rulli compressori che lavorano ad appiattire il Tibet. Mentre la nuova ferrovia rovescia fiumane di “coloni”, vasti quartieri di Lhasa già hanno subito uno stravolgimento: ipermercati, shopping mall di elettronica, banche e uffici turistici sono gestiti prevalentemente dai cinesi han, più istruiti e abili negli affari. Lo stesso turismo di massa violenta l’anima dei luoghi: il Potala Palace, ex dimora del Dalai Lama trasformato in museo, è circondato dai torpedoni, invaso da comitive cinesi volgari e arroganti.
Eppure dietro la sicumera di Hu Jintao traspare il germe di un dubbio. L’incapacità di aprire un dialogo col Dalai Lama rivela un’insicurezza. Il partito comunista cinese non accetta che dentro la società civile vi siano movimenti organizzati, autorità alternative. I culti religiosi sono stati autorizzati dopo la fine del maoismo ma sono sottoposti a controlli stringenti, indottrinamenti politici, obblighi di fedeltà assoluta al governo. La figura del Dalai Lama è inaccettabile perché è un’autorità spirituale indipendente. Al di fuori del Tibet la Cina ha altri 150 milioni di buddisti praticanti: guai se dovesse insinuarsi nel resto del paese l’idea che la religione può diventare il tessuto connettivo di una società civile autonoma. Tra gli incubi della nomenklatura c’è lo scenario Solidarnosc, proiettato in versione buddista. Nonostante le sue fobìe totalitarie, la classe dirigente cinese gestisce tuttavia una superpotenza fortemente integrata nelle relazioni internazionali. La Repubblica popolare è membro permanente del Consiglio di Sicurezza Onu, dell’Organizzazione del commercio mondiale; è il principale partner commerciale dell’Unione europea e degli Stati Uniti. Ha l’ambizione di essere un attore responsabile nella governance globale. E’ indispensabile che l’Occidente eserciti ogni pressione per far capire a Hu Jintao i rischi che corre in Tibet: vanno ben al di là dei Giochi olimpici. Lo sviluppo con cui i dirigenti di Pechino si garantiscono un consenso reale fra una parte della popolazione, può incappare in serie turbolenze se la Cina decide di presentarci un volto odioso e minaccioso.
(La Repubblica)
Le foglie morte non sono
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Le foglie, che morte non sono,
irradiano in cielo la luce,
filtrata dai rami che, nudi, vestirono.
E mi sembra, camminando,
che pestarle sia peccato
ché ...
1 mese fa
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