venerdì 27 luglio 2007
Dagli al Frocio
da Repubblica:
GELA (Caltanissetta) - Continuano le polemiche sull'episodio di bullismo antigay a Gela. Un ragazzo di 17 anni aveva denunciato di aver smesso di andare a scuola, e di aver perso l'anno, perché cacciato dal suo insegnante che lo aveva "accusato" di essere omosessuale. Per indagare sull'episodio, condannato da associazioni omosessuali ed esponenti politici, il ministro della Pubblica Istruzione ha deciso l'invio di un ispettore.
I fatti. "Vai a casa e non venire più a scuola perché sei un gay", avrebbe detto il docente dopo aver visto un filmato in cui il giovane alunno bacia un altro studente, costretto a farlo da alcuni compagni di classe. A denunciarlo è stata la stessa vittima, un ragazzo di 17 anni, che in un esposto ai carabinieri di Gela ha raccontato le discriminazioni subite in classe, perché ritenuto omosessuale. Un clima ostile che lo avrebbe indotto a non frequentare più la scuola, col risultato di essere stato bocciato.
I soprusi e gli atti di bullismo sarebbero avvenuti nell'Istituto industriale "Emanuele Morselli", dove il ragazzo frequentava il terzo anno di informatica. Dopo averlo ripreso con un videofonino mentre baciava un compagno, gli altri studenti lo avrebbero ricattato, costringendolo a fare quello volevano, con la minaccia di diffondere le immagini. Il giovane sarebbe caduto in depressione e non avrebbe più frequentato la scuola. Questa ricostruzione dei fatti è contenuta nella denuncia che il giovane ha sporto ai carabinieri contro tutta la sua classe e contro alcuni insegnanti.
Che i ragazzi riescano ad arrivare a vette di crudeltà inaudite si sapeva. Ma che un docente (no dico, un docente) arrivi a concepire e a proferire una frase come "Vai a casa e non venire più a scuola perché sei un gay"..... mi mancano gli aggettivi per connotarlo (forzandomi a evitare il turpiloquio ovviamente).
Penso a quanto danno abbia fatto non solo a quel ragazzo ma durante tutto il periodo in cui ha esercitato la professione di docente. A quanti ragazzi avrà inculcato le sue teorie razziste? quanti suoi alunni eterosessuali avranno imparato ad odiare la diversità? Quanti suoi alunni gay avrà mandato in depressione facendoli sentire sbagliati?
Penso che costui debba essere interdetto da ogni scuola dell'Universo ma penso anche che ormai i danni maggiori gli abbia fatti.
Uno così è buono solo per le curve dei tifosi e forse nemmeno.
Quando leggo certe notizie mi chiedo sempre cosa penserebbe uno Svedese o un Francese o un Olandese o uno Spagnolo degli Italiani.
Italiani, rassegnamoci... siamo
un popolo di furbi, di raccomandati, evasori e culturalmente mafiosi (e gia si sapeva)
aggiungo di mio bigotti reazionari e razzisti
(passatemi la generalizzazione, io che sempre distinguo e spacco il capello in quattro)
Woody Allen
Venerdì mi svegliai, e poiché l'universo è in espansione ci misi più del solito a trovare la vestaglia
mercoledì 25 luglio 2007
Boccassini Vs Forleo
La Stampa
Paolo Colonnello
Una è introversa, gelosa delle proprie solitudini. L’altra è estroversa, orgogliosa della propria solarità. Una è rossa, l’altra è nera. Una è pm, l’altra è gip. Una predilige scarpe stravaganti, vestiti comodi, occhiali vintage. L’altra ama tacchi a spillo, cinture basse, pantaloni aderenti. E si potrebbe continuare così all’infinito tanto appaiono diverse IldaBoccassini e Clementina Forleo, due donne da combattimento, da anni protagoniste dei peggiori incubi della politica nostrana.
Insultate, vilipese, minacciate, redarguite. Talvolta corteggiate, spesso temute. Iscritte loro malgrado e a seconda delle convenienze e delle circostanze, al partito dei giustizieri di destra o di sinistra. Ilda diventa «la rossa», nel senso di «comunista», «bolscevica», «cinese» - i termini più gentili che le sono stati riservati nel variopinto vocabolario degli alfieri del Polo - quando inquisisce Silvio Berlusconi e Cesare Previti. Si trasforma in una «grande investigatrice» (Ignazio La Russa), «in una persona che non si è mai risparmiata» (Gaetano Pecorella), «in un magistrato che fa il suo dovere» (Alfredo Mantovano), quando tre mesi fa sgomina una colonna di neo brigatisti pronti a colpire soprattutto obiettivi della destra, da «Libero» a Berlusconi.
Clementina invece dà «il voltastomaco» all’ex ministro della Lega Calderoli, dovrebbe «fare la calza» per l’ex ministro Gasparri oppure «darsi al tennis» per il presidente emerito Cossiga, quando scarcera e assolve il marocchino Mohammed Daki e due tunisini distinguendo tra guerriglieri e terroristi. Una decisione che, tra l’altro, fa risuonare il suo nome perfino nelle aule di giustizia del Cairo. Ritorna invece ad essere «un giudice imparziale», «un magistrato coraggioso» e via sviolinando per la destra, insomma, “Clementina la nera”, quando scrive la recente ordinanza su D’Alema, Fassino e Latorre nel caso della scalata Bnl. Ordinanza che le costa viceversa accuse di «incompetenza», «follia», «cattiva letteratura» (D’Alema) da parte della sinistra.
Ilda Boccassini interviene con piglio deciso nel caso di una donna islamica fermata a Malpensa cui vengono sottratti i figli perchè non è in possesso dei documenti che accertano la sua maternità. La interroga, ordina una verifica immediata del Dna, la libera e le restituisce i suoi figli. Clementina Forleo blocca per strada due poliziotti che stanno malmenando un clandestino sorpreso sull’autobus senza biglietto. Si qualifica, chiede di poter testimoniare. Manda su tutte le furie Questore e sindacati vari di polizia e l’allora ministro leghista Castelli, avvia un’azione disciplinare. «Non ho fatto altro che il mio dovere di cittadina, e poi lo rifarei non una ma cento volte», risponde la Forleo.
Ilda e Clementina sono insomma lo yin e lo yang della magistratura, facce diverse della stessa medaglia, quella della Giustizia.
Le intemperanze, l’amore per la legge e al tempo stesso per la rottura delle convenzioni, le rendono più simili di quanto a loro stesse appaia. Perfino nella scelta degli occasionali censori con cui hanno dovuto confrontarsi. Uno su tutti l’attuale Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Che l’altro ieri, dallo scranno di Presidente del Csm ha censurato l’ordinanza della Forleo sui parlamentari intercettati, giudicandola «non pertinente» e «chiaramente eccedente». «Io rispondo soltanto alla legge», ha replicato secca Clementina.
Lo stesso Napolitano, quando ricopriva l’incarico di ministro degli Interni nel governo Prodi, nell’aprile del 1998 ebbe un duro scambio di battute anche con Ilda Boccassini che lo criticò duramente per un progetto di scioglimento dei corpi speciali delle forze dell’ordine impegnate nella lotta alla mafia e alla corruzione. «Quello che era nei progetti del governo di centro destra viene deciso oggi dal centrosinistra», tuonò Ilda in un’intervista. «Non ritengo opportuno raccogliere insinuazioni che mostrano grave mancanza di senso del limite e dell’obbiettività», replicò l’allora ministro definendo «parossistiche» le preoccupate esternazioni della Boccassini.
Le “vite parallele” di Ilda e Clementina hanno impegnato spesso gli ispettori ministeriali di via Arenula. Spediti ogni volta dal Guardasigilli di turno più per intimorire che per scoprire davvero violazioni al codice rivelatesi invariabilmente inesistenti.
Eppure la loro storia è molto diversa. Ilda Boccassini, 58 anni, napoletana in magistratura da più tempo della Forleo, è il magistrato che scoprì la Duomo Connection nei primi anni ‘90 e fece arrestare Totò Riina, vendicando così la morte di Giovanni Falcone, suo grande amico e «maestro». «Con Giovanni - racconta l’anno scorso davanti a un centinaio di ragazzi di una scuola media milanese - guardavamo la Piovra e dicevamo sempre che la realtà è molto, ma molto più agghiacciante. Lui non era ben visto ma aveva un forte senso dello Stato, un’etica, un senso del dovere unico. Ho imparato tutto da lui. Per me è stato un dovere morale trovare i responsabili della sua morte».
In un’intervista a Giuseppe D’Avanzo invece ricorda, a conclusione del processo di primo grado a Silvio Berlusconi e Cesare Previti, di aver ricevuto «decine e decine di lettere di minacce di morte» e di essere stata indagata come mai le era capitato nella vita da quando ha iniziato quei dibattimenti: a Brescia, a Perugia, indagata dagli ispettori del ministero, «indagata infine dal Csm dove alcuni membri laici hanno chiesto più volte un’inchiesta disciplinare nei miei confronti...». In un capo d’incolpazione del Ministero è stata definita, insieme all’ex collega Gherardo Colombo, «immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere un magistrato».
Durante il governo Berlusconi le venne tolta perfino la scorta (con cui è costretta a vivere da anni), ritenuta inutile per una come lei. “Medaglie” per chi ha scoperto gli assassini di Falcone.
Clementina, 44 anni, pugliese di Francavilla, ex poliziotta dalla mira infallibile, non ne ha ancora ricevute così tante, ma è sulla buona strada. Nelle sue mani sono passati procedimenti spinosi, inchieste per tangenti, per terrorismo interno (la strage di Piazza Fontana, ultimo atto) e internazionale. Ha rinviato a giudizio Marcello Dell’Utri. Ha fatto arrestare il telefinanziere Giorgio Mendella, ha messo in carcere l’ex fiscalista Fininvest Massimo Maria Berruti (attuale deputato di Fi), ha messo nel mirino Giulio Tremonti accusandolo di evasione fiscale.
Il suo avvocato è il deputato di An Giulia Bongiorno. Per parlare di politica cita una frase di Ezio Mauro, direttore di Repubblica: «La destra ci fa paura per quello che è, la sinistra per quello che non è». Clemente, inteso come Mastella, l’attuale Guardasigilli, ha già annunciato l’invio degli ispettori e dopo le parole del Presidente Napolitano al Csm, una bella inchiesta disciplinare potrebbe non levargliela nessuno. Ieri ha ricevuto un mazzo di rose rosse.
A Perna mando a dire...
Il Giornale 24 luglio 2007
Marco Travaglio
Caro direttore,
il narcisismo che mi rimprovera Giancarlo Perna ha raggiunto vette inarrivabili ieri, quando ho scoperto di essere così importante da meritare un posto nella galleria dei suoi «tipi sinistri». Ora, visto che leggo e adoro Perna da quand'ero ragazzo, cammino a qualche centimetro da terra. Naturalmente non mi riconosco nel suo ritratto, ma se lui mi vede così è giusto che mi descriva così.
Non voglio annoiare i lettori puntualizzando tutte le sue molte imprecisioni nell'articolo (le sentenze della magistratura sono una cosa, le ispezioni ministeriali tutt'altra; lo scambio di persona tra Carlo e Pierferdinando Casini non è stato corretto nel libro Mani Pulite perché non ci sono state nuove edizioni, ma a ottobre, quando uscirà quelle nuova, sarà rettificato; la mia rubrica sull'Unità si chiamava «Bananas» finché c'era Berlusconi, ma da un anno si chiama «Uliwood Party» in onore del centrosinistra; non ho mai tampinato Arpino perché mi presentasse Montanelli, cosa che non avrei nemmeno osato sperare prima che me la proponesse lui; non mi sono mai «schierato col Cavaliere» negli anni 80; non è vero che, da corrispondente del Giornale da Torino, mi occupavo «soprattutto di sport»; e così via). Ma consentimi di chiarire un paio di punti che attengono alla correttezza e alla coerenza.
Né io né Peter Gomez abbiamo mai rifiutato le «voci dissenzienti» nei dibattiti, anzi ci divertiamo un mondo quando troviamo qualcuno disposto a confrontarsi con noi. Al dibattito a Cortina di quattro anni fa, prima che fossimo banditi dalle manifestazioni culturali cortinesi, erano stati invitati originariamente i pm Caselli e Davigo. Poi cambiò l'organizzazione e quella nuova decise di invitare anche Cirino Pomicino, De Michelis e Filippo Facci. Davigo, avendo denunciato Facci e fatto condannare per tangenti Pomicino e De Michelis, ritenne che da parte sua sarebbe stato scorretto disciplinarmente discutere con suoi imputati e con una sua controparte processuale, e si sfilò. Visto che era stato invitato prima lui, chiedemmo agli organizzatori di trovare qualcun altro, a loro scelta, che non fosse in quelle condizioni, dando carta bianca su qualunque nome (per esempio, gli avvocati di Berlusconi e di Andreotti, e molti altri). Ma non si trovò nessuno che potesse intervenire. De Michelis, Pomicino e Facci lo sanno bene, tant'è che sia Gomez sia il sottoscritto abbiamo dibattuto spesso con loro.
L'altra questione riguarda le mie presunte «giravolte» da cattolico anticomunista a «tipo sinistro». Qui c'è un equivoco: io resto anticomunista (anche se la questione è molto meno attuale, essendo il comunismo crollato 18 anni fa) e continuo ad apprezzare la messa in latino: proprio una settimana fa, su «A», ho scritto che il Papa ha fatto benissimo a consentirla a chi ne fa richiesta. Quanto ai «buonismi e perdonismi sinistrorsi», mi piacciono a tal punto che ho scritto cose terribili - sull'Unità, su MicroMega e ovunque ospitino i miei articoli - contro l'indulto. Mi ritengo un uomo fortunato: ho sempre avuto direttori molto diversi tra loro, ma tutti - da Montanelli a Colombo e Padellaro, da Rinaldi a Mauro, da Flores alla Latella, da Catania a Vimercati - mi hanno lasciato libero di scrivere quello che penso.
A Travaglio mando a dire...
il Giornale 23 luglio 2007
Giancarlo Perna
Contrariamente al suo cognome che evoca le lacerazioni del dubbio, Marco Travaglio è un giornalista di granitiche certezze. Ne ha diverse che si riducono a una sola: i mali del mondo si sanano con la carcerazione che, in sciagurata assenza dei lavori forzati, si spera sia definitiva, ma è benvenuta anche se preventiva, successiva, accessoria o speciale. Il corollario è che Silvio Berlusconi, essendo il peggiore dei mali, sarà alla fine acciuffato dai giudici e terminerà al fresco i suoi giorni. Travaglio - pensa Travaglio - ha consacrato gli ultimi 15 anni e consacrerà i venturi per aiutare le toghe a conseguire l'obiettivo facendo da diligente ruota di scorta alle Eccellenze con articoli, libri, sermoni televisivi. Ora, si è dato perfino al cinematografo. Il giornalista compare infatti in Shooting Silvio, un cordiale film, attualmente nelle sale, in cui il protagonista, tale Kurtz, con l'ossessione del Cav, prima scrive un libro contro il tiranno, poi decide di ucciderlo. Nonostante le evidenti affinità - sia nell'odio cieco, sia nel mezzo usato per esprimerlo: il libro -, Travaglio non è Kurtz, ma solo una comparsa. Ruolo da quattro palanche, riscattato però dall'onore di rappresentare il simbolo vivente dell'antiberlusconismo militante.
Marco è un aitante giovanotto di 42 anni con un viso spiritualmente affilato e l'aspetto generale del cherubino. Quest'anno è apparso in Rai come compare del collega Michele Santoro nella trasmissione Anno Zero. Con tono gelido e sorriso di sufficienza, apriva la puntata declamando pensierini in forma di lettera, col piglio di un appello a reti unificate del presidente Putin, cui vagamente somiglia. In sala silenzio di tomba, sul video un trepidante Santoro ossigenato in attesa di chissà quali rivelazioni. Marco apriva le labbra ben disegnate e dava sfogo alle proprie idiosincrasie sull'Italia con l'aria dell'alieno capitato nel Paese sbagliato. Ha raggiunto il culmine con una lettera a Indro Montanelli nell'Aldilà. «Caro direttore... ora che sei in Paradiso, immagino che tu...» e così via, chiamando il defunto a testimone delle brutture di quaggiù: Berlusconi, Andreotti, Giuliano Ferrara, Papa Ratzinger, i preti pedofili, l'opposizione ai matrimoni gay. Montanelli ha taciuto come l'Apollo delfico e la Pizia-Travaglio gli ha messo in bocca quello che pareva a lui.
Vizio di Marco è, infatti, non dire mai ciò che pensa, trincerandosi dietro le opinioni di presunte autorità. Passi per Montanelli che gode di affetto diffuso, ma la massa delle intemerate travagliesche sono farina del sacco di discussi magistrati. Ciò che i giudici dicono è per Marco oro colato. Non sceglie, riporta. I suoi articoli e i suoi libri corposi - fino a 800 pagine - sono la trasposizione in italiano del gergo delle carte bollate. Questo amanuense delle Procure passa in cancelleria, fa incetta di documenti tribunalizi e li travasa, con un di più di bile, nei suoi innumerevoli scritti al ciclostile. «Copisteria giudiziaria», la definisce Filippo Facci, entomologo del travaglismo.
L'arte di Travaglio consiste nel riportare sentenze e requisitorie, cospargendole di malignità per mettere in cattiva luce chi odia e di sapienti omissioni per salvare chi ama. Se deve scrivere che sono state archiviate le inchieste sul Cav per le bombe del '92 - una fantasiosa accusa per concorso in strage - dice: «Archiviate per scadenza dei termini, ma con motivazioni durissime». Quando però riferisce che il pm De Pasquale (pool milanese di Mani pulite) è stato assolto dall'accusa di avere indotto Gabriele Cagliari al suicidio per avergli promesso la scarcerazione, andando poi al mare e lasciandolo in galera, scrive: «È stato completamente scagionato da quei sospetti. Completamente» e tace che gli ispettori ministeriali hanno invece osservato: «...il De Pasquale ha tenuto comportamenti certamente discutibili... È mancata quella prudenza, misura, serietà che deve avere chi esercita il potere di incidere sulla libertà altrui».
Marco è uno molto sicuro di sé e non di rado spara con sicumera qualche fandonia. Celebre l'affermazione, contenuta in un suo libro, che relatore della legge che abrogò l'immunità parlamentare fosse Pierferdi Casini. Era invece Carlo Casini che, tra l'altro, è un magistrato, ma non del suo giro. L'errore, di cui Marco ha preso atto a parole, campeggia però anche nelle successive edizioni del volume. Travaglio nelle mille apparizioni tv di cui ci gratifica - corre ai talk show più disparati, dalla tv di Roccaperetola a quella di Cassino Scalo - ripete a pappagallo dati e circostanze che lì per lì nessuno può controllare ma che, passati al vaglio, rivelano spesso qualche trucco. Mancando di pensiero proprio, Travaglio ripete ciò che sente dire dai pm amici. Un tempo pendeva dalle labbra del procuratore di Torino, Marcello Maddalena. Oggi, da quelle del pm milanese Piercamillo Davigo. Inoltre, detesta i contraddittori. Una volta che doveva presentare un suo libro antiberlusconiano a Cortina col coautore, Peter Gomez, e i pm Caselli e Davigo, rifiutò di fare partecipare al dibattito sia pure una sola voce dissenziente, bocciando tutti i nomi proposti dagli organizzatori. «Che io sappia - spiegò irridente - quando Falcone veniva invitato a parlare di mafia nessuno gli chiedeva - in nome dell'equilibrio politico culturale - di portarsi dietro Michele Greco e Totò Riina». Come dire: io, Gomez e i due pm siamo la verità rivelata, chi non la pensa come noi è mafioso. Grottesco e ignobile, ma lui neanche se ne accorge.
La conversione al giustizialismo, avvenuta tra '92 e '94 con Tangentopoli, ha trasformato Travaglio. Da uomo di destra e corrispondente del Giornale, è passato alla stampa della sinistra forcaiola guadagnandosi il soprannome di «Manette». Collabora con Micromega del conte d'Arcais, più nota come «Eco delle Procure», l'Unità, l'Espresso, Repubblica, ha scritto per Left, vicina a Rifondazione. Sull'Unità, ai tempi del centrodestra, aveva una rubrica, «Bananas», in cui tracimava fiele contro il Cavalier Bellachioma. Oggi che c'è Prodi, continua a pigliarsela col Berlusca. All'epoca dei girotondi è stato animatore dei sanculotti a fianco di Nanni Moretti, il conte Flores, il geografo Pancho, il pugile Rizzo.
Travaglio, ormai, scimmiotta Travaglio. È prigioniero del suo personaggio e del benessere che gli ha procurato. Nel «dagli» al Cav ha trovato la gallina dalle uova d'oro. Ha schiere di tifosi e blog a lui intestati. I suoi libri, inzeppati di atti giudiziari, vanno a ruba. I giornali del giro se lo contendono. Scrive anche sul settimanale femminile «A» diretto da Maria Latella, biografa e confidente di Veronica Lario, moglie del Cav. Deliziose insensatezze. Nessuna paragonabile però alla portentosa giravolta compiuta da «Manette» nel corso degli anni.
Marco è un torinese di onesta famiglia dell'universo Fiat. Educato dai salesiani, ha debuttato a metà anni '80 come cronista della rivista diocesana, Il nostro tempo. Direttore era Domenico Agasso, un liberale d'altri tempi che dava e pretendeva del lei. Marchino, poco più che ventenne, fungeva da caporedattore della piccola redazione, facendo i titoli e impaginando i «pezzi». Era già allora un portatore di certezze, ma opposte a quelle odierne. Spaziavano dall'anticomunismo, all'insofferenza verso buonismi e perdonismi sinistrorsi. In politica, sembrava stare a cavallo tra Msi e la Dc più conservatrice. Nelle guerre tra Berlusconi e l'ing. De Benedetti (caso Sme, ecc), si schierava col Cav. Nelle cose di Chiesa era tradizionalista e sostenitore della messa in latino. Era, insomma, un chierichetto della destra cattolica. Detestava i preti operai, i parroci rock, i missionari che si buttavano nel «sociale» anziché partire in missione. Si inventò un'inchiesta sull'Africa per mostrare che alla base delle sue tragedie c'erano i governi indigeni corrotti, non l'Occidente predatore della vulgata. Già allora documentatissimo, come oggi, accumulava ritagli di giornale e spulciava faldoni. Come oggi, era austero e astemio. Facendo lo spuntino al baretto sotto la redazione, mangiava tortellini bevendo chinotto. Amico di Giovanni Arpino, collaboratore del Giornale, lo tampinò finché non fu presentato a Montanelli. Così, divenne corrispondente in seconda del Giornale da Torino. Si occupava soprattutto di sport. Scrisse Lo stupidario del calcio, sbertucciando i cronisti sportivi.
Era, dunque, avviato a una serena carriera di giornalista rilassato, quando vennero Tangentopoli e la rottura tra Montanelli e Berlusconi. Marco seguì il direttore alla Voce e cominciò a odiare il Cav per interposto Indro. Giustizialista si scoprì invece abbeverandosi al giudice Maddalena, anche lui del giro montanelliano.
Ebbe successo e si innamorò di sé stesso. Tra i tanti narcisi del nostro mestiere divenne il Narciso capo. Ora, è la quintessenza del giornalista che si impanca."
martedì 24 luglio 2007
lunedì 23 luglio 2007
Fassino vs Forleo
(Apcom) - "Riconosco al gip Forleo il diritto a chiedere al Parlamento l'uso delle intercettazioni ma non le riconosco il diritto di precostituire giudizi infondati e senza accertamenti". Il segretario dei Ds, Piero Fassino, chiudendo i lavori del Comitato politico nazionale ha attaccato il gip di Milano riguardo al coinvolgimento suo e di altri dirigenti Ds nella vicenda delle scalate bancarie. "Lo Stato di diritto in Italia - ha aggiunto - è fondato sulla presunzione di innocenza, non su quella di colpevolezza". Non abbiamo nulla da nascondere e continueremo con serenità.
Avrà ragione la Forleo ma io sottoscrivo anche i puntini sulle i di quello che dice Fassino. Si può anche (forse) avere ragione ma a volte la "ragione" non mette al riparo dal farla fuori dal vasino.
i migliori anni della nostra vita....
e visto che siamo in vena di ricordi:
il mio cartone preferito: Lamù
i miei telefilm preferiti: Star Trek, Tre cuori in affitto
il telefilm evento degli anni 80: V-Visitors
i politici del periodo: Craxi Bettino, II Paolo Giovanni, Reagan Ronald, Thatcher Margaret
e poi..ricordi...
Gli anni '80
Avendo la fortuna di essere nato nel '72 e di aver cominciato a capire qualcosa di politica e del mondo in epoca post-ideologica, devo dire che condivido molto dell'articolo che segue.
Diciamolo gli anni 70 sono stati una gran rottura
ok il femminismo
ok la presa di coscienza di una generazione
ok la fantasia al potere
ma se uno voleva guardarsi un porno doveva prima controllare se il Libretto Rosso di Mao lo contemplava (non lo contemplava), e fin qui si poteva anche sopportare... ma poi arrivarono quei simpaticoni delle BR, Moretti (non quello della birra),Franceschini (non quello della Margherita),Curcio (non quello...), e con loro gambizzazioni, processi del popolo e amenità di questo tipo.
Dopo il decennio dove tutto era politica, come rinculo arrivano gli anni 80 e vai con la leggerezza, le tette al vento (vi ricordate Drive In?) tutto era cool, trendy, individualismo sfrenato (che viene da chiedersi se alla fin fine Craxi fosse stato la causa o l'effetto). Ok, non saranno stati tempi per intellettuali ma almeno non ci si sparava vicendevolmente e non era poco visto il numero di attentati del decennio precedente.
io mi ritengo un post-ideologico non appartengo a nessuna chiesa (nè cattolica, nè comunista) sono disposto ad ammettere errori e verità in entrambi i campi. Chissà che questo non sia dovuto al fatto di aver cominciato ad interessarmi alla politica quando ormai anche l'URSS era allo sfacelo e dopo aver vissuto l'adolescenza quando in televisione Milano era "da bere".
Buona Lettura.
dal “Corriere della Sera”
Gian Guido Vecchi
L'idea corrente è stata riassunta in modo mirabile, qualche mese fa, dal “manifesto”: «Spararono a John Lennon e iniziò un decennio di merda». Indro Montanelli li chiamava gli «anni di fango». Michele Serra, con sublime sarcasmo, gli «anni della rucola», e in effetti poco mancava che i locali di tendenza la mettessero pure nel cappuccino. Il vuoto pneumatico della «Milano da bere», spot accompagnato dalla musica dei grandissimi (e incolpevoli) Weather Report, è diventato il loro marchio. Eppure Enrico Letta, quarantenne neocandidato alla segreteria del Pd, non ha conservato un'idea così ripugnante degli anni Ottanta. Anzi: «Siamo la prima generazione postideologica», ha spiegato al Corriere. E quegli anni «bistrattati» sono stati «in realtà straordinari».
D'accordo, in un Paese dove si è arrivati a riabilitare gli agghiaccianti pantaloni anni Settanta a zampa di elefante, si può arrivare a rivalutare tutto. Ma in fondo, a sentire riflessioni e storie dei ragazzi di allora, non è che la fine dei «formidabili » Settanta sia stata questa gran disgrazia. Saranno pure stati anni «leggeri», per dire, ma siamo davvero sicuri che fosse un difetto? In fondo, giusto a metà degli anni Ottanta, Italo Calvino scrisse un capolavoro che sarebbe diventato il suo testamento spirituale, “Le lezioni americane”, e la prima delle «sei proposte per il prossimo millennio» era proprio «la leggerezza» come rimedio a «la pesantezza, l'inerzia, l'opacità del mondo»: bisogna arrestare la pietrificazione dilagante, fuggire lo sguardo della Gorgone, e «l'unico eroe capace di tagliare la testa alla Medusa è Perseo, che vola coi sandali alati».
Così lo scrittore Alessandro Piperno ricorda d'essere cresciuto «in un'epoca e in un ambiente nel quale la cultura umanistica non aveva nessun valore, e a coltivarla ci si doveva magari vergognare un po'», ma tutto sommato non se ne lamenta: «Credo che quell'esperienza di deserto culturale mi abbia giovato, è stata una palestra più interessante che non vivere in un'epoca di primato della cultura e della politica. Mi ha dato un senso del limite e anche dell'ironia, la capacità di non prendersi sul serio, e meno male perché se c'è una cosa che non sopporto è la figura dell'intellettuale-vate». Del resto «la mia scelta di dedicarmi alle lettere, seppure controcorrente, non fu particolarmente osteggiata. Ecco, il clima era questo: sei un tipo un po' strano ma nessuno ti ostacola. Probabile che in anni più ideologici non fosse così».
A parlarne, ricorre un senso di libertà. Magari, ecco, era tutto un po' più complicato, senza punti di riferimento. «È stato un decennio di confusione, ma come avviene nella ricerca il disorientamento è fertile, crea nuove opportunità»: Angelo Vescovi, scienziato di fama internazionale e condirettore dell'istituto di ricerca sulle staminali al San Raffaele, non parla in astratto. Si laureò nell'87 da studente lavoratore, «nel primo anno e mezzo mi pagai gli studi facendo l'operaio: studiavo di notte e di giorno tagliavo le lamiere, ho ancora i segni sulle mani...». E pensare che aveva scelto un'altra strada: «Ero perito chimico, ma in quegli anni l'industria chimica andò in crisi. Così mi iscrissi a biologia». Qui sta l'essenziale: «Ricordo un decennio di transizione, il vecchio non era ancora stato sostituito dal nuovo, ma è nel caos che affondano le radici i grandi cambiamenti».
Certo gli aspetti negativi restano. La scrittrice Paola Capriolo iniziò allora, «per me sono anni di ripiegamento nella scrittura, di grande concentrazione e chiusura agli stimoli esterni». Una scelta ma forse anche lo spirito del tempo: «Per la verità lo spirito del tempo era che non esisteva nessuno spirito del tempo», ride. «È vero, la fine delle ideologie dà un senso di libertà, ma a queste non si è sostituito nulla che non sia l'"arricchitevi", il puro perseguimento dell'interesse privato. E ora ne vediamo le conseguenze nefaste: nessuna idea di bene comune, solo un fai-da-te della felicità individuale che non mi pare abbia funzionato: di gente felice in giro non ne vedo».
D'altra parte bisogna stare attenti, «è evidente che ognuno idealizza i propri vent'anni e Letta fa il classico errore di un essere umano» scherza Linus, direttore di Radio Deejay. Lui cominciò a sfondare allora «ma non ho un bellissimo ricordo di quel periodo, nella mia testa vincono le immagini più forti, l'ansia di apparire, la superficialità, film e video orribili e quelle ragazze tutte uguali, capelli ricci, spalline e pantaloni da ussaro... Eravamo convinti d'essere molto moderni e in realtà ci mostravamo ancora un po' naif». Comunque «non si può massificare un periodo », dice Linus.
Dipende dai punti di vista. Giuseppe Girgenti, allievo di Giovanni Reale e docente di Filosofia antica, ricorda «da cattolico» quel periodo «iniziato con l'attentato a Giovanni Paolo II e finito con il crollo del Muro: già al liceo si percepiva il cambiamento del mondo, l'apertura di grandi speranze». E poi non c'è solo la Milano da bere, «per un palermitano come me sono gli anni delle stragi mafiose, degli assassini di Piersanti Mattarella e Carlo Alberto Dalla Chiesa, del maxiprocesso di Falcone, forse per un milanese il clima era più rilassato ma altrove...».
Prospettive diverse. Pensate cosa potrebbe dire un ragazzo di diciotto anni che nell'82 vinse la coppa del Mondo in Spagna. «Si figuri! In quegli anni ho vinto il Mondiale, lo scudetto con l'Inter e soprattutto ho conosciuto mia moglie, che potevo desiderare di più?». Eppure Beppe Bergomi ha mantenuto una certa distanza critica: «Non so fuori, ma il mondo del calcio era un po' ovattato. Forse i giocatori di oggi sono più consapevoli, non so. Allora si viveva tutto con superficialità, spensieratezza, senza guardarsi troppo intorno. Io devo ringraziare l'educazione dei miei, se ho mantenuto i piedi per terra. Dopodiché, sono maturato dopo i trent'anni: quando finisci di giocare e la vita comincia».
Roberto D'Agostino trovò una definizione memorabile: «L'edonismo reaganiano». Ma «quello era il contenitore, c'era anche Kundera a dare sostanza filosofica », sorride il creatore di Dagospia. Che magnifica la «belle époque », con buona pace dei nostalgici Anni Settanta: «Io non so. Eravamo tutti reduci da un decennio che zampillava di sangue e di morti, di ideologismo a colpi di P38, di droga, il più brutto periodo della nostra vita. E poi la vita si è trasformata. Il fenomeno Umberto Eco, “Il nome della rosa” che unisce il basso e l'alto, quando nasce? E il boom di Adelphi, prima considerata "fascista"? E la transavanguardia? E il design? E la moda? Altro che gli anni della discoteca: inizia la tv commerciale, il computer, pure il telefonino!». Ma allora da che dipende la cattiva fama? «Dal fatto che per certi, a sinistra, gli Anni Ottanta significano Craxi e l'avvento di Berlusconi con le sue tv. Solo che l'esistenza non è fatta di Berlusconi né di Craxi! Negli Anni Ottanta abbiamo cambiato la nostra vita e questi ancora rompono con quei due personaggi? Ma deché?».